Zì Coso e Pe’ de Foco

Secondo classificato al Premio Dragut 2019, sezione racconti.


Se ne stava piantato immobile, fiero e indomito a ricevere in pieno petto quel flusso crescente di luce e suoni. Il sole rimetteva a dormire l’alba rosa oro appena nata sfilandosi cauto, fino a scollarsi con quell’ultimo lembo di fuoco e l’illusione di incendiare la seghettata silhouette di Cerri all’orizzonte. Un sordo boato proveniente dalle lontane cave di marmo perturbò l’aria quieta deformandola e disperdendosi in una miriade di eco, facendo appena tremolare il pelo dell’acqua, così nitida ed immobile da apparire invisibile fino a quell’istante. Le piccole sagome nere dei girini cambiarono elegantemente posizione solleticando pietre candide, fino a fermarsi in perfetta sincronia con le minuscole onde concentriche, appena percettibili in superficie. I Sassi, così era chiamato quel posto incantevole.

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Una tonda conca naturale creata dal rio Cupone dopo un salto di tre metri tra le colline, a un buon tiro di schioppo dai piedi della catena degli Aurunci, in una campagna elegantemente incolta e lussureggiante lungo la vena del torrente. Quel posto, distante dal centro abitato, conservava un’aura magica e misteriosa per i paesani. L’unico abitante, nella sua vecchia casetta di pietre e travi di quercia, era Zì Coso l’eremita. Verso la fine di giugno del 1976, ai Sassi, quella che fino a metà Primavera poteva ben dirsi una cascata, adesso, per via delle scarse piogge, non era che un pacioso rivolo che fluiva gorgogliando quasi muto tra due grandi massi verticali. Disteso in tutta la sua anomala lunghezza, Pe’ de Foco attendeva il calore del sole sul più alto dei massi. Con le sue lunghe sfumature di verde, la perfetta livrea dai motivi irriproducibili anche dal più pignolo degli artigiani, la coda lunghissima ed affusolata, era uno splendido esemplare di ramarro. Uno scherzo della natura o meglio, un miracolo, cresciuto notevolmente oltre la media della sua specie in un posto del quale signora Morte pareva, almeno per lui, ancora non avere coordinate. Era il Re temuto e incontrastato di quell’angolo ancora incontaminato di natura, una specie di iguana abbastanza grande da terrorizzare i paesani, pur essendo animale di indole pacifica e riservata: fuggiva via veloce alla presenza umana e il più delle volte era stato avvistato in istanti di dormiveglia. “Piedi di fuoco”, così lo aveva battezzato Zì Coso quella volta che lo aveva sentito sfrecciare rumoroso nel suo campo di fave ormai secche al sole estivo, spezzandone i fusti neri al poderoso passaggio. Si erano infine trovati faccia a faccia: Pe’ de Foco che lo fissava severo e circospetto mentre un paio di steli si inclinavano mestamente ai suoi lati col cigolio di miniature d’alberi abbattuti, lasciandoli in un silenzio rarefatto dal frinire intermittente di cicale. Così, dopo la pausa degna di un film western, Zì Coso aveva sentenziato: “Pe’ de Foco!”. Le cicale si erano zittite, e il rettile, come inorgoglito, aveva levato il capo per poi voltarsi come un fulmine, e ruzzolando tra brevi pause, si era tuffato fragorosamente infrangendo lo specchio d’acqua immacolato.

Zio Cosmo, detto “Coso”, era uno dei contadini deportati dai tedeschi per i lavori forzati durante il periodo della Linea Gustav. Aveva lasciato sua moglie Assunta e quando era tornato, attraversando gran parte dell’Italia tra sentieri battuti o inesistenti e improvvisati nascondigli, lei non c’era più: la scheggia di una granata ne aveva schizzato via l’anima rossa e gioiosa fra le nuvole. La sua “Cerasa” se n’era volata via. Dopo la guerra si era trasformato in una specie di oracolo-curatore, molti vi si recavano per farsi mettere a posto un osso rotto o scappato fuori, ma anche solo per una parola di conforto o consiglio su qualsiasi tipo di questione. Da altri invece era considerato un “coso” strano, ma in fondo tutti gli portavano gran rispetto. Il boato delle cave e il leggero tremolio dell’acqua, avevano sollevato le palpebre a Pe’ de Foco quel tanto da fargli focalizzare il movimento degli appetitosi girini. Si tuffò con gran tonfo e fluendo rapido a colpi di coda in immersione, a bocca ridente e spalancata ne fece buona incetta. Riemerse lentamente soddisfatto e arrampicatosi riprese posizione. Nel frastuono del pasto, i suoi sensi sopraffini non avevano captato, nella galleria di vegetazione che ombreggiava a tratti il rio, la silenziosa presenza di Mario e Ottavio, due ragazzini undicenni, decisi a partire in missione presto quel mattino, per vedere di nascosto il drago misterioso. Mentre Ottavio osservava incantato il maestoso rettile assestare con comodo la sua mole sulla roccia, Mario cercava cauto un grosso sasso con la mano nel ruscello e, presa bene la mira, lo scagliava con tutte le forze verso il povero Pe’ de Foco centrandogli la testa, e quello, dopo un breve scatto disperato, si afflosciava sul posto tremolante. « Che hai fatto???» urlò Ottavio: «Nno sai ca è peccato mortale?!». « Pigliamolo! Gliu portamo ‘bascio gliu paese!» sbraitò Mario eccitato dal suo colpo da manuale. «Ma sì pazzo? Non lo vidi ca se move ancora? E se ce mozzeca?». «Statte zitto e aiutame! Movete!» rispose mentre con un coltellino strappava lunghe foglie di strame da un cespuglio. «Gli legamo la vocca e le cosse!». «No! E se po’ se sceta? I n’ce vengo loco n’goppa!». «Cacasotto! E va bono, n’te move!» gli urlò Mario uscendo allo scoperto e guardando in basso per cercare un altro sasso. Quel fragore insolito aveva però già attirato l’attenzione di Zì Coso che, lasciato il pollaio, era lassù in alto ad osservare la scena con le mani sui fianchi e l’espressione tra sconforto ed amarezza. Mario aveva appena scelto il giusto sasso e si apprestava a finire Pe’ de Foco. «Fermo!» tuonò Zì Coso: «Fermateve! Diavuri ‘shgraziati!». I due ragazzi raggelati lo osservarono in silenzio discendere, sparire tra i cespugli borbottando e riapparire poco dopo sul masso dove il povero animale sembrava addormentato, solo scosso da leggeri scatti involontari delle zampe posteriori. Gli pose la mano sulla testa, poi volse uno sguardo torvo ai due discoli: «Minite subito cca!».

Eseguirono arrampicandosi controvoglia. «Arrecamogliolo alla casa mia!» ordinò Zì Coso. «E se se sceta? Chiglio me strocca ‘na mano! E po’ me fa schifo!» piagnucolò Ottavio. «N’se sceta. E po’ che te fa schifo? Vidi comm’è beglio, vidi che coluri… Dilinquenti! Ate ‘strutto n’opera d’arte della Natura!». Ciò detto afferrò la mano del ragazzo e la pose sul rettile. Ottavio dopo una smorfia di ribrezzo fu affascinato dal contatto. Se lo aspettava ruvido, invece era di un bel velluto liscio e piacevole. Mario non disse nulla, e con un ghigno prese le zampe anteriori di Pe’ de Foco, mentre Zì Coso teneva la testa del ramarro sollevata. Giunti nell’aia lo posero sul muretto accanto al pozzo. Zì Coso tirò su un secchio d’acqua e lo svuotò a tratti sulla testa dell’animale. «È morto?» chiese impaziente Mario. «No! Tu ti’ gli occhi bboni bbìa a prenne la mira!» gli fece secco Zì Coso.
«T’è ragione! Vidi! Sotto la zampa de nnanzi…» fece Ottavio. A tratti il torace del rettile si gonfiava debolmente. «Ma statte zitto cacasotto!» gli rispose Mario: «Mò che more gliu portamo bascio gliu paese.». Zì Coso lo seccò con uno sguardo: «Va dento casa, e portame gli stracci!». Mario si allontanò seccato. Passarono la mattinata a cercare di risvegliare l’animale che non dava segni di ripresa. Zì coso gli avvolgeva la testa con uno straccio imbevuto d’acqua, che gli cambiava di tanto in tanto. A vederlo così, Mario esplose in una risata dicendo: «Co’ ‘ssa pezza nera n’capo me pare Zi’ Cuncetta quanno va alla messa!». Scoppiarono a ridere tutti e tre, ma Zi’ Coso tornò subito serio e colmo di freddezza: «Mo magnamo, che è ora, e vui ve state cca fino a che non se ripiglia, e se non se ripiglia…Va’ a piglia’ sei pummarole grosse, e nu cico de vasilico. Movete.» ordinò severo a Mario. «Otta’, vacce tu.» disse Mario strafottente neanche guardando l’amico. «None. Ce va Mario. Movete t’aggio dittu.». Mario si voltò furioso verso l’orto scalciando ciottoli. Mentre mangiavano… «L’hai fatto pecché isso è libero, e tu no. Vidi la ‘nvidia, come te se roseca.» disse il vecchio prima di dare un morso alla panzanella. «E che significa?» sbottò isterico il ragazzo: «Si pazzo! Isso è ‘n’agnimale, io songo nn’ome, e pozzo fa’ chello che me pare!». «Addavero?» proseguì placido Zi’ Coso: «Hai vistu quanno t’aggio ‘rdinato de fa’ le cose come stivi? Nn’è accussì che pure pateto fa co’ te? E se tu nno fai, nn’è vero che po’ t’allucca e te vatte malamente? Tutti gli santi iorni? N’cè pe chesso che alla scola già si stato bocciato?». «La scola n’serve a gnente, ine voglio bbia ghì a fatica’.» balbettò Mario. «Tu sotto padrone? Co’ ‘sta coccia no’ duri manco n’ora. Pe’ ciò a Pe’ de Foco gliu vulivi arreca’ bascio gliu paese, e magari faregliu muri’ dento ‘na gabbia, pecché n’te piace che isso nno vive dento ‘na gabbia come te. Ecco pecché tu sì fraceco dento, e ‘nu iorno chelle sbarre ca te purti dento ‘sciranno fore, e saranno chelle de ‘na prigione.». Mario si alzò di scatto gettando con sprezzo il resto del suo pranzo alle galline, e se ne andò scalciando polvere giù verso il rio.

«Zì Co’, i’ n’vece avesse tornà alla casa, sennò mammema chi la sente?» mormorò Ottavio guardando l’amico allontanarsi. «E n’vece ve state cca’, se no so’ cavoli vosti, e isso t’è ragione a chiamarete cacasotto. E se capisce pure pecché site gli meglio amici: isso ha trovato uno che po’ cencecheà, come gliu pate fa co’ isso, e tu co isso c’hai trovato gliu pate ca non tì, pecché se n’è fuito, e v’ha lassati suli a te e mammeta. Che site begli tutti e dui, tu e chigl’ato agnimale… dui pori diavuri scincicati.» terminò ridacchiando Zì Coso, facendo arrossire Ottavio che scattato in piedi e afferrato il piatto lo puntava minaccioso: «Non te permette cchiù de nomena’ a patemo!». «Che vo fa’ co’ ssu piatto, gliu vo tira’ a me o a isso?» mormorò il vecchio indicando Pe’ de Foco: «Forza, tira, tanto semo vecchi tutti e dui, accussì agliu creatore ce vado ‘n compagnia.» rispose voltandogli le spalle. Ottavio dopo un brivido tornò del suo colore, e posando il piatto si lasciò sedere. Zì Coso si sdraiò per la sua pennichella all’ombra del grande gelso bianco che sovrastava l’aia, e prima di chiudere gli occhi mormorò: «Otta’, tu si nu bravo uaglione, e sotto sotto pure Mario, ma tu n’ta fa’ tratta’ accussì da isso, fa male a te, e fa male pure a isso. Mo m’addormo nu poco, tu ogni tanto mitti na pezza bagnata n’capo a gliu poro Pe’ de Foco.». Zì Coso sonnecchiava ancora quando Ottavio vide spuntare la testa dell’amico che risaliva. Aveva un bastone. «Che vo’ fa co’ ‘ssa mazza?» chiese Ottavio preoccupato. «Mitti n’ata pezza n’capo a chella bestia, accussì Zì Coso non sente la botta. Mo gl’accido e po’ sitti sitti ce ne iamo, e gliu arrecamo bascio.». «No!» fece Ottavio alzandosi risoluto e puntando una mano verso l’amico. «Che t’ha raccontato chigliu vecchio ‘ncritinito! Levete cacasotto, ca sennò sta mazza te la scasso n’capo!» gli intimò Mario. L’altro gli si avventò addosso e cominciarono a rotolare avvinghiati sull’aia svegliando il vecchio: «Fermi! Diavuri ‘mpestati! Guardate!». Un raggio di sole filtrava dal gelso illuminando la testa di Pe’ de Foco, che aveva un occhio fisso su Zì Coso. Fissarono muti l’occhio gelido del rettile come fosse un buco nero, finché non richiuse lentamente la palpebra. «M’ha parlato!» gridò Zì Coso con lo sguardo bocconi. «M’ha parlato…vo esse portato a gliu mare!» continuò in un sussurro, come ipnotizzato.
Mario si alzò di scatto scrollandosi l’amico di dosso: «Pe’ la matina Zi’ Co’, te sì finito de ‘mpazzi’! E come t’ha parlato? Co’ la coda? E che t’ha detto? Che gli fa male la coccia? E po’ che ne po’ sape’ de gliu mare se non gliu ha mai visto?». «’Mbicigli, non lo sintite gliu vento che ve’ da mare tutti gli iorni? Isso gliu addora, lo sape meglio de vui comm’è gliu mare, è na creatura magica, e se more, vidite gli guai che passate!». A quelle parole i due monelli iniziarono a piangere dal troppo ridere, mentre Zì Coso si alzava e cambiava l’ennesima pezza umida. Quando i due si zittirono, li fissò gelido: «Vui dui mò m’aiutate a caccia’ la moto e a vede’ se parte, po’ ve ne potete pure ghì a fanculo. Quanno scura me gliu carico ‘rreto e gliu porto a mare.». I due rimasero a fissarlo muti e sbigottiti. «Chisso è ‘mpazzuto…» mormorò Ottavio. «Diteme ‘n’ata vota ca so’ pazzo e ve giuro ca ve faccio vola’ dento agli Sassi. E so’ cavugli gli vosti se fate parola de ‘sta storia.». Tirarono fuori la Bianchina dalla stalla e la ripulirono.

Dopo vari tentativi, con qualche colpo di tosse e una gran fumata nera la vecchia mono cilindro resuscitò. I ragazzi si avviarono muti verso il paese, voltandosi ogni tanto a guardare quella scena bizzarra: un lucertolone con una pezza in testa, la vecchia moto che copriva il frinire di cicale con il suo rombo scatarrante, e Zi’ coso che frenetico entrava e usciva di casa senza altro motivo che scervellarsi su come avrebbe potuto evitare di essere notato dai paesani o chiunque durante il viaggio, sia perché Pe’ de Foco avrebbe fatto una brutta fine, che per non diventare definitivamente lo zimbello del villaggio. Il sole era quasi dietro i monti quando Zì Coso iniziava a vestire Pe’ de Foco con una camicetta bianca della defunta moglie. Scucì un suo paio di pantaloni neri per simulare una gonna lunga che avrebbe fissato a due bastoni già legati ai fianchi della moto, e alle cui estremità aveva messo due scarpette da festa della sua compianta. Legò la testa con un fazzolettone a fiori, in modo che si intravedessero appena gli occhi dell’animale tramortito. Cercò di arrotolare il più possibile la lunghissima coda che infilò in un sacco. Si caricò quel fagotto addobbato sulla schiena, lo ancorò a sé con delle bretelle, salì cauto sulla moto, levò il cavalletto e si avviò incerto e zigzagante giù per la collina. A metà strada dal paese, seduti su un ponte, Mario e Ottavio sentirono avvicinarsi il rombo, e quando videro passare Zì Coso con quella spaventapasseri dietro, per poco non caddero di sotto dal ridere. Quando si ripresero il rombo era lontano, «Iamo a piglia’ la vespa de patemo.» scandì serio Mario, lo sguardo fisso nel vuoto. «Che? Chigliu pateto è la vota bbona che t’accire!». «Otta’… me simbri mammeta! Facemo accussì, se tu no vo’ mini’, i ce vado solo, e alla casa stasera n’ce torno. Chigliu patemo verrà subbito alla casa tia, e tu gli a dice chesso: “Ha detto accussì Mario che se torna alla casa e tu gli mitti le mani n’goglio, è meglio ca gliu accidi, tanto no gliu vidi cchiù lo stesso.”», diede uno schiaffetto all’amico prima di correre via, e quello dopo un attimo di esitazione gli si lanciò all’inseguimento. Nel frattempo Zì Coso era giunto in paese, il punto critico era il bar, con gli astanti ai tavolini intenti nelle sfide a “passatella”, un gioco fatto di carte e sonore bevute di birra. Zì Coso confidò che fossero già abbastanza brilli e diede gas alla moto, ma fu proprio il rombo ad attirare attenzione, e la velocità non sufficiente da passare inosservato.
«Ohohohooo!!! Vidi zì Coso comme scappa! Addo te ne vai co’ ‘ssa bellella Zì Co’!», «Ne Zì Co’? Addo’ te la si sposata a ‘ssa bella pacchianella? Pe’ la matina e che popò che tene!», e giù così tra fischi e grasse risate. In effetti il sacco con la coda acciambellata era vistosamente voluminoso rispetto alla sottile silhouette della donzella misteriosa, ma il trucco funzionò, smuovendo la routine di quella ciurmaglia, che passò il resto della serata tra battute e congetture.

Era fatta. Ora doveva solo arrivare al porticciolo di Gianola prima che facesse buio. Sulla superstrada sussultò scorgendo da lontano l’Alfetta dei carabinieri appostata. Decelerò di istinto, attirando allo specchietto retrovisore l’occhio del brigadiere Allolito, che fece all’appuntato: «Ginu’, ferma a questo, e se non tiene niente ‘e che, prendi nome, targa e andiamo, questo è l’ultimo, t’aspetto in macchina, mi fa male la capa, ho preso troppo sole.». Scattò la paletta. «Oi mama… e mò?» disse tra i denti Zi’ Coso. «Scendete e favorite la patente.». «Aggiate pacienza, non pozzo scegnere, la mia signora sta a durmi’, no sta bono, la porto alla casa.». «Favorite la patente.». «Non la pozzo prendere, sta sotto gliu sedile e come v’aggio pregato, no vurria sceta’ muglierema.». L’appuntato quasi non sentì il vecchio, tanto era preso ad osservare le singolari forme e l’aspetto della signora. «Aspettate qua.» disse staccandole gli occhi con un brivido. «Brigadie’! Dovete venire! Ci sta un vecchio, dice che non vuole scendere per non svegliare la moglie e non vuole dare la patente, ma la cosa strana non è questa, è la moglie Brigadie’! Dovete vedere! Tiene un fazzoletto in testa, si vedono gli occhi chiusi, e come so’ brutti! E terrà ‘nu naso che manco Puricinella! La pelle pare verde! È una femmina secca come il palo del telefono, ma tiene un… perdonate Brigadie’, tiene uno strano culo sconfinato! E pare che c’ha pure una gamba di legno!». «Ginu’, ma niente niente tutto ‘stu sole a me m’ha grigliato ‘e recchie e a te t’ha bollito chell’i poche ‘e cerevella che tieni? Maronna mia…». Mentre Allolito sbuffando si accingeva ad uscire dall’auto, coperta dal rombo della Bianchina arrivava a tutta velocità una Vespa. « Pigliaci la paletta!!!». Ottavio, seduto dietro, ad occhi chiusi sconfisse la paura. Allungò il braccio destro e sfilò la paletta all’appuntato, mentre Mario emetteva un grido degno di Cavallo Pazzo, per poi strillare, «Mitti ‘ssa paletta n’goppa alla targa! Movete! Cacas… Pe’ la matina! Allora mò n’te pozzo cchiù chiama’ cacasotto!». Si infilarono in una traversa con lacrime miste di vento e risate, mentre sentivano la sirena e la sgommata dell’Alfetta.
Zì Coso ripartì con il sorriso e un flusso caldo al cuore. Arrivò al porticciolo alle ultime luci del tramonto. I due “diavuri” erano già lì, e lo aiutarono a trasportare Pe’ de Foco fino al molo. Tolsero i vestiti al rettile e si sedettero vicini con le gambe ciondoloni sull’acqua. Zì Coso ne teneva la testa appoggiata sopra le cosce e i due ragazzi il resto del corpo sulle loro. Rimasero in silenzio a guardare la luce sfumare. Ottavio non fece in tempo a chiedere «Respira ancor..», che il ramarro scattò fulmineo verso mare in un tuffo che li bagnò da capo a piedi, ferendo con i rostri la coscia di Mario, strappandogli i jeans in righe parallele come sbarre, e frustando sonoramente con la coda la fronte di Ottavio. Lo guardarono muti prendere sinuoso il largo. Una lacrima dagli occhi di Mario cadde a diluirgli il sangue sulla coscia, ma lui non piangeva più per il dolore fisico ormai da tempo, era quella strana scena di libertà a farlo crollare. «Ahi..», mormorò Ottavio toccandosi la fronte. «Iammocenne.» fece Zì Coso con un largo sorriso di occhi umidi, che tre giorni dopo erano chiusi e secchi, sotto il gelso, durante la sua pennichella pomeridiana.

Li riaprì così di scatto che restò abbagliato dalla luce e dal frinire immenso di cicale, nel quale aveva distinto il fragore famigliare di un tuffo. Attese con gli occhi spalancati un grido o qualche altro rumore a sconfessare quell’ibrido tra dubbio e speranza, ma fu silenzio, e li richiuse in un crescente ridacchiare. Il valoroso Pe’ de Foco, dopo un bel giro nella baia, aveva risalito il fiume Capodacqua dalla foce fino ai piedi dei monti, poi da lì fino a casa. Per tre giorni aveva seminato nuove incredibili leggende, apparendo e scomparendo tra occasionali grida di vecchi e bambini, riuscendo anche ad assaggiare una vecchia trota, ma preferiva di gran lunga i suoi grassocci girini dei Sassi, eleganti sulle pietre candide, appena smossi all’alba dalle mine delle cave di marmo di Coreno.

Silent night

Con questo racconto ho partecipato all’edizione 2018 del concorso letterario “Il Bicicletterario”, premiato con “menzione antologica speciale”.
Ringrazio il Bicicletterario per il premio.

Il rumore della ruota posteriore di una bicicletta in corsa, a pedali fermi, non ha un nome. C’è chi lo chiama “ticchettio” ma non rende, perché è un rumore continuo, non è intermittente come il ticchettio di una vecchia macchina da scrivere.
Lo battezzai il giorno che smontasti il mozzo di una vecchia ruota, per farmi vedere cos’era a generarlo. Con le dita nere di grasso mostrasti quel cilindro con i suoi magici cricchetti: Erano loro i minuscoli lavoratori che davano vita a quel cicaleccio, come il frinire senza fine di un grillo infartato sulla stessa nota.
Battezzai quindi “cricchettio”, quel suono incantevole, calmante, accordato con l’aroma del lungomare soleggiato e senza vento, appena dopo pranzo.
Quello della tua bici, in risonanza col telaio, dava una nota che riuscivo a percepire: Un LA preciso a 440 Hertz. Per molti un rumore anonimo, privo di colore.

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Col tempo mi scoprii capace nel distinguere le note di ogni bici, ognuna celava la sua. Io nato muto e tu di rare parole.
Il tuo un arbitrario mutismo selettivo, il mio invece ancora indefinito.
Del mio silenzio nessuno si dannava più di quanto non si vergognasse, dando per scontata la tara di famiglia che prima o poi avrei platealmente frantumato.
Tale il nonno, così il nipote. In sostanza per gli altri era tutta colpa tua, di un vecchio pescatore in pensione ostinato e taciturno, il mio unico amico.
Cos’è un amico se non chi ti regala il tempo senza che sia un dono.
La mia anomalia mi avvolgeva in una solitudine frustrante, nessuno che allungasse la mano per raccogliere il filo della mia sudata comunicazione fatta di espressioni, e gesti. Ero uno strano, ed è strano come riuscissero a farmi sentire d’essere un violento, senza che lo fossi mai. La quarantena dell’anomalo.
Mi raccontasti che quando nacqui sembrò la scena di un presepe.
Venni alla luce sotto Natale, senza piangere. Tutti erano attoniti, ammutoliti come pastorelli imbarazzati nel presepe di una “sailen nait”.
Tu e quell’inglese tutto tuo, metabolizzato ascoltando battibecchi di americani.
Fu uno di quei militari della base che sfornò il tuo soprannome. Quegli smargiassi yankee impiastravano la lingua nei colori del dialetto per inventare vocaboli mutanti, catturando divertiti parole sfarfallanti nel tran tran del porto.
“Shark’tiello”. Squaletto. Non era la nominata del pesce predatore ad aver ispirato l’invenzione del nomignolo, ma di sicuro il tuo modo di apparire all’improvviso, taciturno, con quella fila di denti bianchi che sorprendeva chi incontravi. Io per te ero “Gizs”, Jesus. Ho sempre pensato che mi chiamavi così per non scomporre il tuo sorriso.
Avevo tre anni quando costruisti un seggiolino di legno e lo montasti al manubrio della bici, per portarmi a prendere aria al porto e riportarmi a casa dopo l’asilo.
Almeno una volta davi tre colpi di pedale accompagnandoli con le prime tre note di “Sailen nait”: “Sa-i-len…”. Poi facevi una pausa aspettando che io cantassi “nait”.
In quella pausa la ruota emetteva il cricchettio che per me veniva dalla fila dei tuoi denti, in bilico tra burlesco e speranzoso, ma sapevi bene che mi cantavo dentro, che sentivo i suoni nei rumori e nelle cose.
“Uno…due…tre colpi di pedale, per gli altri ero un diverso, per te solo speciale.”
Mi nutrivi in silenzio di ritmi ed armonie. Continuo a chiedermi dove li avessi presi, forse dal mare, dallo sciabordio contro il tuo gozzo, dal cigolio regolare degli scalmi, dalle crome plananti dei gabbiani, dal blues inconsapevole degli americani.
Poi fu il giorno della mia prima bicicletta, ero pesante ormai per le tue gambe.
Il negoziante ci osservava stupito: Il nonno sollevare le bici una ad una, il nipote dare un colpo di pedale e lasciar andare la ruota per ascoltarne il rumore, la giusta nota. Avrebbe mai immaginato che avremmo scelto la bici soprattutto per il suono?
La scegliemmo bianca, anonima, ma era un tondo Do diesis 554 Hertz.
Adesso, insieme sul lungomare, le nostre bici in corsa cricchettavano all’unisono un intervallo di terza maggiore. A tratti intonavi il tuo repertorio ed anche Sailen nait ci stava su benissimo, io però continuavo a non cantarne la fine, e infine cadde il giorno in cui le tue gambe decisero che si era fatto tardi.
Era inizio estate. Mi incaponivo a restare seduto accanto al letto e tu mi spingevi ad uscire ed allenarmi per la gara delle dune. La gara di bici che si teneva ogni anno alla prima luna piena di agosto, come da tradizione, tra i tanti sentieri che discendevano tra isolotti di cespugli dalla collina verso mare, sopra la terra battuta che man mano, avvicinandosi alla spiaggia, perdeva la sua lotta con la sabbia. Non è facile correre in bici sulla sabbia, illuminati solo dalla luna o da qualche torcia del pubblico incitante. Bisogna intuire dove è più compatta, per non affossare e cadere.
Fu allora che mi parlasti della bici fantasma. Mi raccontavi che da ragazzino avevi vinto gare grazie a lei, chiudendo gli occhi per seguirne il suono ti aveva guidato per i giusti sentieri fino in spiaggia e alla vittoria.
La sognai bianca sgraffiare intermittente la pelle della notte, oppure grigia e gelida tratteggiare il lungomare nella luce incerta dei lampioni, in una notte di mare grosso, pioggia e vento uniti sferzare diagonali.
Avrei voluto vederla in equilibrio, senza conducente, ondeggiare con i pedali spinti dall’invisibile senza fermare la pedalata lasciando spazio al cricchettio. Non riuscivo a immaginarne il cricchettio. Qual era la nota? Non me lo dicesti. Dicevi che se me l’avessi rivelata non l’avrei sentita, ed io alla fine non ci credevo, indeciso se amare od odiare quel tuo modo di trascinarmi fino all’apice del serio per disorientarmi in un soffio, rivelandomi d’improvviso che tutto porta in sé la friabilità del castello di sabbia.
La luna piena imbiancava la notte di Ferragosto. Da giorni parlavi a fatica e comunicavamo solo a gesti, i tuoi sempre più deboli, i miei sempre impazienti.
Mi trascinarono via per lasciarti riposare, ma il tuo sguardo prima di lasciarti e andare alla gara fu come un passaggio di testimone alla staffetta.
Ai piedi della collina era tutto color luna.
Era una sailen nait, tranne il rumore di bici e schiamazzi di sostenitori sparsi, alcuni tremolanti al centro del cerchio arancione delle loro torce. La partenza era cento metri dall’inizio del labirinto che, per quanto chiunque potesse conoscerlo, nella semioscurità celava sorprese. Nei cento metri ognuno aveva il tempo di decidere il sentiero in cui tuffarsi a capofitto e raggiungere la spiaggia per primo.
Al via mi trovai dietro al più veloce, imboccammo lo stesso sentiero e a metà percorso, quando ancora non avevo avuto la tentazione di chiudere gli occhi e sapere se esistesse davvero la bici fantasma, lo feci per forza.
Presi in faccia un tentacolo di rovi tuffandomi nella sabbia ancora calda del giorno rovente e sentii quella nota. Distinta dalle ruote degli altri corridori. Un LA 440 Hertz, proprio come la tua bici.
Ad occhi chiusi non mi rialzai. Sentii il sapore della sabbia, sputai via.
Mi piace pensare che ruppi il silenzio cantando “nait”.
Mi ritrovai in mano un rametto di legno sabbiato. Una staffetta infinita, la vita.
“Voglio una bici per tagliare il vento tra i sentieri e la tua mano calda sulla fronte per calmare i miei pensieri”.

Senza freni

Con questo racconto ho partecipato all’edizione 2016 del concorso letterario “Il Bicicletterario”, conseguendo una menzione speciale e ricevendo in premio una targa dall’associazione culturale AQuadro.
Ringrazio l’associazione e il Bicicletterario per il premio e per questa opportunità.

Quel giorno gli serviva una bella scossa. Pensò quindi di prendere via Ortale, la stradina ripidissima congiungente le due strade parallele che da casa scendevano fin giù al paese e a scuola. Amava farla in picchiata, a “palla di cannone”, c’era visibilità fino all’incrocio con l’altra strada e non c’erano traverse.
La imboccò e come faceva a volte, nei pochi secondi impiegati a percorrerla, cominciò a pensare a quel nome: “Ortale”, fantasticando che in passato qualcuno come lui, in bicicletta, avesse perso i freni e ci fosse rimasto secco. Da qui il nome via Mortale addolcito in Ortale dai paesani negli anni, come a voler liberare dalla sventurosa condanna il fantasma pedalante di quel povero sfortunato che, sicuramente come faceva anche lui, tirava i freni solo alla fine, calcolando esattamente il tempo per fermarsi all’incrocio e allungare così al massimo il precedente momento d’ebbrezza, quel vento che ti frusta i capelli, ti allarga le maniche, si infila nei pantaloni solleticandoti le gambe e che se apri la bocca gonfia le guance come un palloncino sballottandole a destra e a sinistra, con esilarante rutto finale liberatorio d’aria appena ingurgitata.

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Cominciò a pedalare forte per lanciarsi alla conquista di un nuovo record. Dieci metri, venti, vento che aumenta, anche Benevento prima si chiamava Maleventum. Pensava a quanti nomi mutati conoscesse, ancora ignaro che quel giorno sarebbe toccata a lui, e per davvero.
– Ciao Ciclotauro! – gli aveva detto sua madre sorridendo prima di vederlo uscire di casa dopo colazione, i libri in una mano e l’elastico nell’altra. L’aveva guardato correre fino alla porta tutto cosce, spalle strette, scapole alate, braccia lunghe ed esili.
Forse era meglio “Ciclosauro” aveva pensato, sì, una specie di cucciolo di T-Rex, vista la sproporzione cosce-braccia ma erbivoro, la preoccupavano un po’ la sua timidezza e quell’introversione. In paese era pieno di bulli e loro erano lì da poco, venuti dalla città per vivere in campagna, ma in fondo Ciclosauro aveva solo dodici anni e tutto il tempo di farsi muso ed ossa dure. Si era ricordata di non avergli dato il fazzoletto pulito. Lui aveva appena finito di fermare i libri al portapacchi della Graziella e stava per montare in sella che lei lo aveva tanato – Ma bene! Ecco che fine fanno i fazzoletti che non trovo più! – Il fazzoletto che aveva usato per legare il parafango posteriore, un giorno che si era sbullonato, era ormai mutato in uno straccetto teso all’impossibile e leopardato dalle pozzanghere. La sua faccia imbarazzata l’aveva fatta scoppiare in una risata disarmante e porgendogli il fazzoletto pulito gli aveva detto – È proprio ora che papà ti prenda una bici nuova, questa è quasi da buttare e ormai è piccola per te. – Salutandola sgommando, era riuscito a sentire solo la coda di un’ultima frase ¬– …bbiamo tagliare quei capelli! – e come sempre non il suo “vai piano!”. Era sfrecciato via sorridente al pensiero di una bici nuova ma fiero della sua Graziella rossa non più ripiegabile perché spaccata al centro e risaldata, piccola vero, con sellino e manubrio tirati su al limite massimo era diventata l’estensione di sé, la sua sicurezza, era capace di andare su una ruota sola per centinaia di metri, anche in curva. L’aveva smontata, rimontata e riverniciata sempre rossa, tante volte, ne conosceva ogni vite e bullone. Ci andava sempre, con il sole ed anche con la pioggia ma non a scuola, perché i suoi, dopo la prima ed unica volta che ci aveva provato sfuggendoli, gli avevano vietato di presentarsi bagnato fradicio davanti alla maestra.
Il sorriso era cominciato a sfumare appena dopo un quarto dei due chilometri che lo separavano dal paese e da quel bullo della terza media, il suo incubo. Il giorno prima quello gli aveva rubato la fionda che nascondeva sempre a metà strada sotto il ponte del ruscello, nel buco di un pilone e che riprendeva tornando da scuola. Il bullo l’aveva seguito in bici di nascosto, lo aveva spiato e poi raggiunto minacciandolo di consegnargli la fionda, altrimenti se la sarebbe presa a suon di botte.
La sua magica fionda, l’ennesima che aveva costruito ma stavolta sentiva di aver raggiunto la perfezione. I materiali sempre gli stessi, camera d’aria rossa di bicicletta per gli elastici, la toppa ritagliata da una scarpa trovata in una delle case vecchie abbandonate dai contadini in fuga dalla guerra. Erano la metà degli anni settanta e anche se i chilometri d’asfalto cominciavano ad insinuarsi vieppiù rapidi nel paesaggio, erano ancora molte le strade sterrate. Nelle case vecchie ancora non diroccate insisteva quello strano odore, una lotta tra odore di camino spento, muffa e polvere di guerra. Vi si trovavano ancora oggetti, a volte anche bauli con lettere, accessori e cianfrusaglie varie, frammenti di vita abbandonati, decisi superflui da un istinto sbrigativo di sopravvivenza. Ritagliando la toppa in quella scarpa orfana si era chiesto a chi poteva essere appartenuta, magari era quella del fantasma di via Ortale. Infine il manico di legno, la parte più importante, fondamentale per la mira ed il lancio precisi.
Lo aveva trovato come un diamante in un cespuglio, anzi lo aveva sentito, come un’incantevole melodia nell’attimo in cui l’aveva messo a fuoco diradando cautamente le armonie di rami ed infine ritagliandone la geometria tra cielo e fiori gialli. Una Y perfetta in chiaro legno di ginestra, così perfetta che aveva impiegato un pomeriggio intero ad intagliare il manico su misura, nel timore di sbagliare e rovinarlo, poi lo aveva decorato pazientemente con il coltellino arroventato, e ora quel bullo voleva appropriarsene. Mai! Sceso dalla bici aveva raccolto un sasso dicendo al bullo che quella fionda non era precisa e mirato il tronco di un cipresso a una ventina di metri lo aveva mancato di proposito.
– Non ci credo. – Aveva sibilato Bullo smontando dalla bici e strappandogli di mano la fionda, – Vediamo… – digrignando e raccogliendo un sasso. Per fortuna Bullo era uno di paese, non di campagna, non era un tiratore esperto. Si era piazzato la toppa davanti alla faccia, la mira non si prende così ma di lato, gli elastici vibranti devono sfiorare l’orecchio, la mira esatta si sente. Unica, tesa e suadente si mostra solo l’attimo che ti scordi di guardare.
Il sasso era passato almeno ad un metro dal tronco, Bullo era rimasto un attimo interdetto e lui ne aveva approfittato – Ne ho un’altra, precisa, dopo mangiato puoi venire a prendertela a casa mia. – Quel maledetto aveva prima esitato e poi l’aveva frustato con la fionda sulla faccia minacciandolo che sarebbe tornato nel primo pomeriggio e se non l’avesse trovato con la fionda buona si sarebbe tenuto quella.
Rientrato a casa e ingoiato fugacemente un boccone, si era messo febbrilmente a costruire la fionda che gli era riuscita la più imprecisa e brutta che non avesse mai fatto, aveva tagliato il primo ramo di mirto decente, legato male gli elastici che avrebbero retto al massimo una dozzina di tiri dopoché sarebbero schioccati sulla faccia del suo oppressore. Dentro sé due forze che fondevano in caos disperato: rabbia e paura. Bullo si era presentato puntuale fuori dal cancello di casa e gli aveva intimato subito di fargli provare quella fionda. Come avrebbe potuto nascondere che stava per rifilargli una schifezza? Poi un lampo: i film western.
Quel suono delle pallottole sulle rocce, quella specie di “sweiiinnnnn” lunghissimo e impressionante. Con un sasso irregolare lanciato sull’asfalto avrebbe potuto simularlo anche con la fionda, l’aveva fatto altre volte. Cercato e trovato il sasso adatto tra la ghiaia del cortile prima di uscire dal cancello, l’aveva messo nella toppa trovando la faccia tosta di sentenziare ¬– Questa fionda è la più potente che abbia mai costruito. – Tesi gli elastici e puntato l’asfalto a pochi metri da Bullo, il sasso era schizzato via sfiorando la strada, risuonando come se Burt Lancaster avesse sparato con un Winchester sul pelo di una roccia in Sfida all’O.K. Corral. Aveva funzionato. Il suggestionato Bullo, lanciatagli in mano la fionda magica era sparito pedalando con la fionda bidone a tracolla, ma lui sapeva che non sarebbe durata, l’indomani si sarebbe vendicato. Quella notte aveva dormito a tratti, agitato nel pensare al giorno dopo.

Via Mortale, ottanta metri, cento, la bocca aperta e il palloncino, occhi socchiusi e lacrime resistere tremolanti al vento, dalle tempie rifugiarsi solleticanti tra i capelli, nuovo record, ora i freni, solo quelli dietro, “quelli davanti li devo ancora riparare”, uno scatto, la percezione di un gommino che schizza via, leva del freno a vuoto e vuoto nello stomaco, la pelle in fiamme. Senza freni!
“Non posso attraversare l’incrocio, a quest’ora passano macchine e trattori, non posso vederli ci sono alberi, a sinistra il campo di grano è un salto di almeno tre metri, è l’unica.
Volo.”
La Graziella si impuntò nella cunetta catapultandolo in aria. Piroettò il tempo di vedere la bici roteare sopra lui e poi quell’urlo, un grave e potente suono che non sapeva di possedere, una nuvola scura di passeri alzarsi in volo poco prima del suo atterraggio giallo, ma no, forse ancora un po’ verde e morbido di spighe, forse.
Si risvegliò in paradiso, sentì lo scampanellio di una bici ma non immaginò che era la sua Graziella rossa sbatacchiante che cercava posto in mezzo al grano, pensò che era il campanello del fantasma di via Mortale che vide sfrecciare per un attimo pedalando sghignazzante, poi un flash da bianco ad azzurro intenso, la prospettiva verticale delle spighe, le cicale, la scia di un aereo, tre rondini inseguirsi in una treccia nera come quelle di lei, la bambina della seconda fila con gli occhi verde cicoria, quella che “forse non vedrò più e mi faceva abbassare lo sguardo”. Così disteso pensò al film “Incompreso”, che aveva visto qualche sera prima, dove un bambino, arrampicatosi sopra un albero cadeva insieme al ramo spezzato sui sassi nell’acqua troppo bassa della riva di un fiume e dopo sussurrava di non sentire più i piedi, si era rotto la schiena. Quel ramo spezzato gli ricordò suo padre che non aveva colpe ad esser fragile, era spesso fuori per lavoro ma quando c’era, c’era, e quella sera avrebbe voluto chiedergli di aiutarlo ad aggiustare i freni della bici. Pensò a sua madre, una verde e grande quercia sorridente. Provò a muovere le dita dei piedi, c’erano. Non si era fatto nulla. Ruttò l’aria del palloncino in ritardo e rise invaso dal grano, la bici era intatta, la recuperò insieme ai libri sparsi e si avviò verso la scuola.
Nel cortile sentì subito addosso lo sguardo incarognito di Bullo, aveva due strisce violacee sulle guance e un labbro gonfio, la fiondaccia aveva sortito il suo effetto. Davanti a tutta la scolaresca incuriosita Bullo gli si parò davanti guardandolo dall’alto in basso minaccioso, tenendo in pugno la fionda rotta che stava per sbattergli in faccia, quando Ciclosauro, che fino a un attimo prima aveva lo sguardo riverso a terra lo sollevò e guardandolo dritto negli occhi gli svuotò in piena faccia quell’urlo già eruttato dall’abisso del volo in bicicletta.
L’aria e il tempo paralizzarono per qualche istante. Bullo slittò indietro senza alzare i piedi come spostato da un ciclone, incantandosi bocca aperta a fissarlo stupefatto e congelato nel silenzio totale. Mentre nel cortile di scuola cadeva solo una foglia da un platano e dall’atrio il vecchio bidello fissava la scena a bocca semiaperta, Bullo voltò i tacchi e sparì mormorando – Tu sei pazzo… – In un attimo tutti i bambini gli furono intorno battendogli pacche, pungendosi sulle scapole alate. Mentre entravano in classe la bambina dagli occhi cicoria si avvicinò e fissandolo gli mise le dita tra i capelli estraendone piano una spiga di grano che prese con sé, sfuggendogli un ultimo sguardo di cicoria infatuata.
Quel giorno al ritorno da scuola Ciclosauro dimenticò di prendere la fionda sotto al ponte.
Si fermò accanto al cartello stradale di via Ortale giurando che non avrebbe mai più sfidato il fantasma in bicicletta, tenendosi in piedi sul sellino della bici poggiata al palo del cartello disegnò con un pennarello rosso dei raggi di bicicletta e al centro una piccola M dentro la O di Ortale. Amava Maria Occhi Cicoria.

Karma

— Questa è falsa, la deve gettare via! — Proclamò la cassiera del supermercato sventolando la banconota da 20 euro fiera di averne scovata un’altra senza l’aiuto del rilevatore.
— Si sente già dalla carta. — aggiunse stropicciandola con fare collaudato, sprizzando aria di sufficienza.
Si sentì estremamente umiliato per l’ennesima volta. Non ne poteva più di essere trattato in quel modo e l’impotenza della sua condizione ne aggravava la percezione della contingenza, viveva quelle esperienze come incubi sempre più devastanti.
Perché doveva subire quell’inferno? Quando sarebbe finita? Si chiedeva soprattutto come la sua anima era potuta trasmigrare in una banconota falsa, immaginando il manipolo di entità superiori che l’avevano condannato a quel tragicomico Karma passivo, sganasciarsi dalle risate seguendone le peripezie dall’alto dei cieli tra un barbecue e una noiosa partita a carte.
Cos’aveva mai potuto commettere di così grave nella vita per meritarsi quel destino?
Appena tre mesi prima era stato un semplice impiegato di banca, con una vita da single trentenne che vive ancora con la madre fino a quel dannato lunedì, tornando a casa dopo la consueta ora di palestra si era fuso con lo scooter ad un tram per un colpo di sonno.

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Le stesse domande le aveva poste il giorno prima ad una gentile carta di credito, ben più ferrata sulle loro sorti, pressati in un portafoglio nella tasca posteriore di un obeso e flatulente camionista durante il lungo viaggio verso un mercato ortofrutticolo. Stranamente, i sensi erano attivi nonostante fossero intrappolati in materia inerte. L’anima nella carta di credito apparteneva a una donna di mezz’età direttrice di un grande ufficio postale che era spirata addormentandosi in una sauna difettosa il giorno del suo cinquantesimo compleanno. Dalle testimonianze che aveva raccolto in ormai quasi un triennio di vita da tessera in plastica rigida, si era fatta delle idee abbastanza definitive su quello che sarebbe potuto essere l’agognato epilogo di quell’infausta condizione. Gli aveva spiegato che, a quanto pareva, la liberazione e la rinascita potevano avvenire solo nel momento in cui fossero stati adoperati per un’azione che prescindeva dalla loro funzione oggettiva. Lei era ottimista, aveva sentito che un medico dell’ASL trasmigrato in una tessera sanitaria, era stato liberato dal suo possessore, un chitarrista metallaro che un giorno l’aveva usato come plettro durante una jam improvvisata. Purtroppo il suo proprietario, il camionista, era solo appassionato di Karaoke e non suonava strumenti a corda ma non disperava, sarebbe potuto accadere qualcos’altro, chissà. — La vedo nera allora. — aveva commentato lui lapidario. In quale modo poteva mai essere usato se non come oggetto di una squallida transazione? Il suo stato di banconota falsa rischiava addirittura di lasciarlo dimenticare per l’eternità in un cassetto. Essere gettato via sarebbe stato anche peggio, un’azione legata al suo non-valore. Secondo quanto asseriva la signora carta, in mancanza di un’azione pura, che fosse positiva o negativa, sarebbero stati condannati a vivere un lento degrado in quella condizione e all’interruzione definitiva del Karma. La fine dell’esistenza, il nulla. Allora sarebbe stato meglio essere bruciato e farla finita subito, quanto era il tempo di degradazione della cenere? Dopo una lunga pausa, chiuso in muta disperazione, aveva rotto il silenzio domandandole il perché di quella loro, a dir poco, bizzarra trasmigrazione. — Non ti conosco e non credo che saremo ancora assieme abbastanza da consentirmi di esprimere un’ipotesi riguardo la tua situazione ma posso parlarti della mia. Nel mio ruolo di direttrice intervenivo spesso agli sportelli nel caso di operazioni sulle carte di credito e quando veniva fuori qualche irregolarità, ad esempio se erano state svuotate per via dell’ingenuità dei possessori nel tenere nascosto il pin, facevo fatica a nascondere che godevo dell’espressione sperduta e disperata delle vittime, specialmente osservandole mentre distruggevo le carte con le forbici. Credo sia questa la causa del mio stato . — Lui pensò a quando aveva allo sportello persone che si ritrovavano a depositare banconote false. Ricordò la lite con un cliente che gli aveva chiesto irritato cosa avesse da sorridere, dopo che lui gli aveva fatto notare che una banconota da 500 era falsa. Non si era nemmeno accorto di ghignare, una cattiveria innata che faticava a riconoscere, in fondo era una brava persona, aveva solo quel piccolo difetto ed essere trasmigrato in quel modo gli sembrava una punizione troppo severa. — Un anno fa ho incontrato mio zio, da un barbiere. — aveva detto la carta interrompendo i suoi pensieri, — Trasmigrato in un fon. Anche lui nella vita precedente era stato barbiere e verso la pensione aveva preso questa inclinazione sadica di godere quando un cliente si lamentava d’essere scottato mentre gli asciugava i capelli, forse solo perché stanco e stressato da una vita di lavoro. Un mese dopo non c’era più, un pettine mi ha detto che era trasmigrato, la figlia del barbiere lo aveva usato per far volare le bolle di sapone alla sua festa di compleanno. — Avevano continuato a parlare tutto il viaggio fino alla loro separazione, poi lui era stato estratto dal portafoglio per pagare caffè, cornetto e sigarette all’autogrill. Ora dalle mani della cassiera passava accartocciato in malo modo nella tasca del banconista dell’autogrill, osservato come un fesso dagli astanti, tutto rosso in viso. Rivide la luce poco dopo, su un bellissimo belvedere a strapiombo sul mare. Il banconista si era dato appuntamento con la ragazza e avevano appena consumato i panini che aveva preso al supermercato. — Guarda che mi hanno rifilato. — fece il banconista passandolo nelle mani della ragazza. — Sono false? Però sono fatte bene. — rispose lei strofinandolo tra le dita, — e ora cosa ci fai? —. — …e che ci vuoi fare. — disse riprendendolo e girandolo da una parte e dall’altra in una pausa terrificante, che se l’ex impiegato di banca non fosse stato di carta avrebbe versato fiumi di sudore freddo. — Vuoi vedere perché si dice che i soldi volano? — disse il banconista poggiandolo sul muretto e cominciandolo a piegare. Poco dopo un aeroplanino azzurrognolo volteggiava sullo sfondo celeste, planando dolcemente verso il mare. Riuscì a godersi solo un attimo di quel meraviglioso volo panoramico e mentre le onde svolgevano le pieghe del minuscolo velivolo distendendone la forma nativa di banconota, rimaneva abbagliato dalla luce nel reparto nascite di un remoto ospedale. In un’osteria su una strada provinciale, l’ultima immagine della signora imprigionata nella carta di credito prima di vedere il paesaggio diventare piccolo sotto di lei fu la dentatura del camionista che, in assenza di stuzzicadenti, la stava utilizzando nascosta tra le mani per liberarsi di un brandello di braciola. Nel frattempo, nel mezzo dell’oceano Atlantico settentrionale, un rattrappito pallone Super Santos, reduce da una movimentata pasquetta in spiaggia, affrontava la traversata in direzione delle Americhe. Sì era proprio lui, Cristoforo Colombo.

L’ultima storia

La vista era nitida quel mattino, il sole pronto e in ritardo laggiù in fondo, dietro una fitta corona di aceri, poco sopra lo spazio che figlio lago nato cieco tastava accudito da madre pioggia.
Erano in silenzio sulla veranda, l’aria quieta tesseva il suono sfilante del pettine tra i capelli di lei sulla sua sedia a rotelle, lui in piedi alle sue spalle in quel rituale che non poteva farne a meno e, ne era sicuro, anche lei, che non poteva dirglielo ma sapeva farglielo sentire.
Da quando aveva perso la voce le parlava di continuo e a volte si rispondeva da solo, interpretandola nei ricordi.
Nel timore di farle male con il tremolio della mano, la voce pacata era sottomessa all’attenzione delicata con cui la pettinava.
Aveva smesso di scrivere da quando lei s’era ammalata e avevano deciso di ritirarsi in quella casa in abete rosso gelosamente ostinata a fissare il lago.
— Sai cosa pensavo? —, fece una lunga pausa ormai spontanea. All’inizio, quando ancora lei poteva comunicare almeno con i gesti, attendeva sempre una risposta prima di continuare, poi nel tempo era divenuta una speranza, ora inconsapevole abitudine.
— Pensavo che scrivere somiglia a pettinare. Passi la prima volta e trovi tanti nodi da sciogliere prima di arrivare in fondo. La seconda volta ne trovi meno. Dopo tante passate, quando senti che il pettine va liscio, allora sei soddisfatto e quella storia per te è finita, è nata, e non hai più bisogno di ripassare. —
Il primo raggio eludeva gli alberi tracciando una retta che sfiorando il lago brillava netta sui vestiti di lei, che aveva smesso di respirare.
Alzò gli occhi dai capelli alla lastra d’acqua intersecata che lo abbagliò, tolse adagio gli occhiali e indeciso vi trovò posto nella tasca dietro, assieme al pettine.
L’ultima storia, talmente bella che non avrebbe mai saputo scrivere, gli nacque tremula da un occhio, affrontò pazientemente inesorabile le revisioni delle sue rughe prima di cadere e perdersi libera, finita, tra quei amati, profumati capelli lunghi .

Il fantasma dell’Ikea

Lui odiava andarci, litigavano sempre. Lei invece adorava andarci, anche se purtroppo e  — nel modo più assoluto!  — mai per colpa sua, litigavano sempre.
La prassi una fotocopia: parcheggiare i bambini dai nonni e farsi prestare il peggior furgone del parco mezzi di quel taccagno traslocatore del cognato.
Guai a farle la battutina del déjà vu quando ben oltre la metà delle volte, al ritorno, si ritrovava a guidare per trasportare loro due più una confezione di candele profumate che non bastava a coprire il tanfo di nafta di quel carcassone sgangherato, ma era il solito — Idiota! Che ne sapevi cosa avremmo potuto trovare all’angolo occasioni? — e da lì cominciava l’elenco dei mobili che sì, non erano rotti o vecchi, ma si può sempre trovare qualcosa di meglio, dal design più moderno e funzionale. Quando sentiva quelle tre parole sopprimeva un brivido di sopportazione, specialmente “funzionale”.

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Lei gli sembrava posseduta, era un appassionato di soprannaturale e uno dei pensieri intimi che lo distraeva aiutandolo a sopportare con ironia quegli spossanti eterni momenti era immaginare quel posto abitato da anime sospese che avevano trovato il più spassoso  passatempo prima di vedersi assegnare un posto nell’aldilà ormai in esubero: una gara a chi fa litigare di più le coppie. Si divertiva a immaginarla marionetta di uno spiritello che impossessatosene ben prima di imboccare il parcheggio, la guidava governandone la voce e le movenze tra esposizioni e scaffali vari. — Sembri posseduta!— le digrignava spesso inutilmente  tra una guerriglia e l’altra. Stavolta l’obbiettivo però era ben preciso: il divano nuovo. Cosa mai le aveva fatto il loro povero fedele divano che lui amava di un amore corrisposto? Negli anni aveva preso amorevolmente la sua memoria di forma dopo stressanti giornate di lavoro e non esigeva d’esser portato fuori per passeggiate e bisognini come gli toccava fare ad ogni alba con il piccolo Fuffhi. Con l’acca, pure al cane lei aveva voluto dare quel tocco Ikea.
Al secondo piano (si doveva cominciare tassativamente da lì come nel gioco dell’oca) la campanella del primo round non si fece attendere e squillò con i di lei elogi a letti-contenitore e testiere-librerie e i di lui potenziali ecosistemi di acari e accumula polvere, disutili cause di asma ed enfisemi.  Il secondo round li attendeva alle camerette per bambini e lui era già pronto per l’attacco “ma che bel letto a castello marcondirondirondero” opponendo due figli obesi non certo per colpa sua e la  condanna a scaricatore di porto-casa ogni sera da divano a castello con un bisontino sulle spalle… che successe qualcosa. Stava sibilandole un — Hai intenzione di dormire qui o possiamo andare a vedere i benedetti divani. — che a metà frase fu folgorato dalla vista di un viso ceruleo , acquoso e fluttuante  riflesso su un quadro in una lontana cameretta per bambini, che muoveva le labbra esattamente come lui, tanto che sfumò la frase restando di ghiaccio a fissare quel miraggio galleggiante che ora aveva anche la bocca aperta, come lui. La chiuse, e quello la chiuse.
— Guarda là! — le esclamò afferrandola per un braccio.
— Uh! Bellissima quella cameretta! Non dirmi che ti piace! — fece lei piacevolmente sorpresa.
— Ma no! Guarda il quadro! Il quadro!!! —
— Oh… stupendo! Lo prendiamo per la camera dei bambini? —
— Ma tu non vedi niente? —  disse ancora doppiato dal silente labiale dell’infausto miraggio.
— Ma allora cos’è che ti piace? Dimmelo! — gli fece divincolandosi per andare verso la cameretta, non le pareva vero che lui avesse trovato qualcosa di suo gusto che non fossero salame di renna e biscotti alla cannella. Rinfrancatosi un attimo al pensiero che non poteva che trattarsi di un gioco di riflessi, la seguì, ma con le gambe molli e a bocca aperta. Il viso cominciò a sfumare man mano che si avvicinava e quando furono entrambi nella cameretta e lei già carezzava una seggiolina come fosse Fuffhi, era svanito del tutto.
— Ma ti piace davvero così tanto questo quadro? Hai sempre preferito vetro senza cornice… — gli disse vedendolo continuare a fissarlo incantato. Lui muto tornò lentamente indietro verso il posto del primo avvistamento, voltandosi di scatto ogni tre passi. Lei, osservandolo un po’ stranita, stavolta si concentrò sulla scrivania pensando che doveva essere quella l’oggetto del suo inaspettato interesse.
— Bella eh? Come piacerebbero due di queste ai bambini, magari di due bei colori diversi… —
— Fosse per te ti compreresti tutto, ma proprio tutto. — ci tenne a sottolineare — Devo andare in bagno. —
Le fece ormai ripresosi dallo spavento e sempre più certo dell’ipotesi gioco di riflessi ma gli serviva un attimo di quiete, comunque quel bizzarro episodio l’aveva un po’ scosso.
— Ti aspetto ai divani. — La sentì dire già dandole le spalle e guardando lungo il cammino tutte le possibili superfici riflettenti che avevano potuto creare quell’effetto che però, pensandoci bene, era stato momentaneo. Appena entrato nei bagni fu sorpreso dal suo acume: era pieno di gente, sicuramente qualcuno aveva tenuto aperta un’anta da qualche parte giusto il tempo di creare quella combinazione di rifrazioni. Non poteva che essere sua quella faccia, e lei semplicemente non l’aveva vista perché il punto di osservazione non era allineato con il suo, unico in quell’incastro raro ma possibile. Incredibile, dopo lo avrebbe raccontato e si sarebbero fatti due risate, magari quella volta non avrebbero litigato, pensò ridacchiando mentre si insaponava le mani.

— Così tu puoi vedermi. — lo gelò una fredda quanto afona voce femminile.
Sentì il sangue scendergli a cascata verso i piedi, rimase a fissarsi le mani e le bolle di sapone, irradiate da una lenta, fioca luce intermittente, la sorgente era all’altezza della sua testa, nello specchio che aveva di fronte e sul quale non osava alzare lo sguardo, terrorizzato. Aveva quasi trovato il coraggio per fuggire che la voce riprese.
— Non aver paura, ti prego. Non posso fare del male. Tu hai un dono, ti può essere molto utile. Può cambiarti la vita se impari a conoscerlo e ad usarlo. —
— Possibile che con tutta questa gente non c’è nessuno a cui scappi da pisciare? — si disse sconvolto di sudore freddo sperando che qualcuno potesse entrare in quel momento e mettere fine a quell’incubo.
Fu esaudito. Entrò di corsa un signore attempato che se la stava facendo sotto, sbattendosi la porta del primo bagno alle spalle. Ma la presenza era ancora lì e anche lui, mani serrate ancora insaponate e occhi sgranati sulle bolle. Entrò un ragazzo per lavarsi le mani a due lavandini dal suo. Lui lo fissò e quello dopo un’occhiata interrogativa lo salutò timidamente, inquietato dal suo sguardo e dalla sua rigidità.
— Non può né vedermi né sentirmi, — gli sospirò la voce, — solo tu puoi farlo, tu hai il dono. —
— MA CHI SEI! CHE VUOI DA ME! — sbottò alzando lo sguardo allo specchio, giusto il tempo di sentire il rumore della porta e non vedere il povero ragazzo che fuggiva allucinato con le mani insaponate sgommando in retromarcia.
— Non gridare, o ti prenderanno per un pazzo e ti trascineranno via con la camicia di forza. Stai calmo e ascoltami. —
Sembrava l’immagine dello specchio della regina di Biancaneve ma era una donna ed anche se fluttuante ne riconosceva dei bei lineamenti. Restò a fissarla ipnotizzato. Nel frattempo, il signore dalla vescica debole era uscito e si accingeva a lavarsi le mani fischiettando.
— In vita ero una donna felice, come tua moglie, casa, famiglia, amiche, un lavoro, ero commessa qui all’Ikea, part-time. Amavo questo posto, a un punto tale che quando potevo ci tornavo. Non molti sono così fortunati da avere un posto di lavoro dove desiderano tornare anche nel tempo libero. Tu ad esempio no, non è così? —.
— Che ne sai tu di me? Ci spii anche a cas… —
— Prego? — gli fece il signore a fianco guardandolo interdetto. Non gli rispose continuando a fissare lo spettro e quello se ne uscì alla chetichella lasciandoli di nuovo da soli.
— L’unica nota stonata in quell’armonia quasi perfetta era che mio marito non sopportava questo posto e faceva di tutto per rovinare la mia passione, anche sadicamente a volte. Mi ricorda qualcuno… — lo pizzicò con un sorriso ironico galleggiando più intensamente,  — … e io sopportavo, sopportavo, sperando che un giorno  una magia avrebbe potuto cambiarlo, ma purtroppo sono morta prima e sono riuscita miracolosamente a fuggire dall’aldilà, dove non è male… —
— Ma non c’è l’Ikea! — sbottò lui con una risata tesa ed isterica. Si ghiacciò quando vide la tenue luce celestina prendere sfumature giallo – arancione.
— Hai detto che non puoi fare del male! —  starnazzò intimorito.
— Purtroppo sì. — replicò secca riprendendo le tinte originali.
— Tu che poteri hai? Hai detto che io ho un dono e posso usarlo, ma come? — aveva preso coraggio.
— I miei poteri? Non e ho tanti, non posso agire sulla materia in nessun modo ma posso interagire con la mente, solo quella delle donne, purtroppo, — emanò un flash arancione e lo guardò in cagnesco, — e a volte, se sono sulla mia stessa lunghezza d’onda, per così dire, posso indurle a fare alcune cose, ad esempio acquisti un tantino esagerati. — ridacchiò.
— E il mio dono? Come potrei sfruttarlo? — disse tradendo avidità.
— Uh, aspetta! Non ti ho parlato di un altro mio potere. Ubiquità. Posso essere in più posti contemporaneamente. —.
— Lo so cosa significa ubiquità. — replicò sprezzante.
— Allora puoi immaginare che mentre ti ho intrattenuto qui, nel frattempo, ho seguito la tua adorabile moglie, ho scoperto che avete il conto bancario cointestato e le ho fatto fare qualche piccola follia. Ha appena acquistato un divano in pelle tre posti Mlohkcots , 1.500 euro… ma non è un problema per te, vero tesoro? AHAHAHAHAHAHAHAH!!!! — svanì lasciandolo con l’eco di quella sinistra risata a guardarsi stordito la faccia nello specchio.
— Nooooooooo!!! — uscì come un indemoniato alla ricerca di lei, tra le risate beffarde dello spettro che lo seguiva su ogni oggetto riflettente con cui lui si imbattesse durante la sua corsa sfrenata, gridando il nome di sua moglie sotto lo sguardo atterrito di clienti e commesse, mentre lo spettro gli gridava dietro
— ILDRON! Struttura letto con contenitore 430 EURO! ACQUISTATA! AHAHAHAHAH —
— Fermatela! Fermate mia moglie!!! —
— KILVAM! Materasso in lattice naturale 500 EURO! AHAHAHAHAH —
— TI PREGO! BASTA!!! — strillava disperato perso in quel labirinto infinito,
— Hai la Carta Ikea Family? NO? Spiacenti… ATSKCOD cucina completa 4.600 EURO AHAHAHAHAH! —
Si svegliò di soprassalto dando una gran testata al comodino Sarnon e facendo cadere a terra la sveglia Siviv svegliando anche lei,
— Ma che hai? Che fai con quelle mani? Ricordati di chiamare mio fratello, dobbiamo andare all’Ikea per il divano. —
— Devo riflettere. — Le rispose insaponandosi le mani a secco, lo sguardo perso nel vuoto.

Nebbia nei capelli

Se provi piacere asciugando i capelli a una persona con il fon, allora significa che l’ami, pensava.
Ogni testa assonnata che sbucava dai sedili dell’autobus 21 delle 7.15 sembrava aver portato un po’ di nebbia con sé prima di salire, nei capelli. C’era odore di nebbia lì dentro. Ben diverso dal profumo sprigionato dall’aria calda e profumata di uno sbuffante fon, placido separatore di masse capellose appena deterse.
Su quel pensiero ondeggiò vittima di un primo colpo di sonno, riafferrando all’ultimo secondo utile la sbarra a cui si manteneva, costretto anche quel giorno a stare in piedi.
Urtò un signore che lo guardò con espressione da ultimatum: vedete di resistere al vento dannata canna, buona la prima ma ora stop, o libererò il mastino dalle labbra e ciò non vi conviene.
Era grigio, sembrava un tipo da “voi”. Disse – Scusate. –, staccando lo sguardo per lasciarlo tornare nel suo guscio privato di pensieri disconnessi tipico di chi è condannato a non poter viaggiare seduto.

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Uova. Ogni essere appena sveglio ha la fragilità di un uovo. C’è chi riesce prima a rompere il guscio e a curiosare in quel n’uovo mini mondo offertogli dalla vita e chi invece sembra volerci rimanere e soprattutto esige che non gli sia rotto… il guscio.
Gli scappò un singulto immaginando il signore a fianco ringhiargli – Non mi rompere il guscio! – Il signore sembrò accorgersene lanciandogli un’ultima occhiataccia che però cambiò subito in un ghigno soddisfatto, pigiando il pulsante di fermata e anguillando nella mischia nonostante l’abbondante stazza fino a raggiungere l’uscita, beato lui. Così quel autobus non era che un gran contenitore di una cinquantina di uova stipate, sedute ed in piedi ognuna con la propria invisibile scadenza timbrata da un inchiostro non visibile, tranne che alla fine, prima della cottura. Se Newton fosse vissuto in quel periodo avrebbe scoperto la gravità in un autobus colmo di uova, niente mele, in piedi alle 6.30 di mattina, quando davvero sai bene che cos’è la forza di gravità. Secondo colpo di sonno, per fortuna stavolta urtò una donna che non solo aveva rotto il guscio almeno un’ora prima, ma già sembrava chioccia e lo riappese energica alla sbarra come una pianta di pomodori ad una canna, con tanto di sorriso.
La ringraziò imbarazzato. La donna – chioccia era esperta di cinetica da mezzi pubblici, non si teneva neanche alla sbarra, si mise a studiarla per non essere di nuovo sopraffatto dal sonno, anche perché osservandola si accorse che riusciva a chiudere gli occhi e a recuperare il sonno senza appigli, strabiliante. Il trucco sembrava celarsi nella posizione, esattamente parallela ai finestrini, e poi c’era una sorta di istinto naturale nel prevedere gli sbilanciamenti del mezzo dovuto forse ad una conoscenza profonda del percorso. Strano, non l’aveva mai incontrata su quel autobus che prendeva ormai da ben undici anni, sempre alla stessa ora. Doveva quindi essere dotata di un istinto sovrannaturale.
Si disse che doveva assolutamente apprendere quella tecnica portentosa. Visto che lei era stata così garbata nel salvarlo, pensò di approfittarne per chiederle umilmente quante fermate mancavano alla sua liberazione, in modo da rompere il ghiaccio e poter carpire il suo segreto. Si mise ad osservarla aspettando l’attimo favorevole nella sua intermittenza sonno – veglia e nel momento in cui notò la massima apertura delle palpebre le disse: – tra quante scende? –. Era di altezza media, tondeggiante ma evidentemente soda e dotata di buona elasticità. Lei girò gli occhi bruni ancora annebbiati verso i suoi, lui li vide accendersi rapidi e trasportare il resto del viso alla prontezza di una cortese risposta. Aveva una specie di ritmo magico che gli sfuggiva. – Capolinea. – gli rispose con espressione rassegnatamente solidale. Anche lui scendeva al capolinea e nel resto del tragitto si tennero svegli a vicenda chiacchierando tra gli scossoni da una fermata all’altra.
Quando il guscio e il ghiaccio erano stati rotti abbastanza si lanciò nella domanda che più bramava farle, – come riesce a dormire in piedi senza tenersi? –. Gli rispose sorridente che il suo segreto era immaginare intensamente il pendolo di Foucault e lui, colto alla sprovvista e dall’ignoranza di cosa fosse, annuì simulando di aver capito con una risatina forzata. Al capolinea si salutarono, lei in realtà prendeva sempre quell’autobus ma mezzora prima, quella mattina aveva fatto tardi. Si erudì su Foucault ed il pendolo e il giorno dopo uscì di casa più presto del solito. Scoprì nuove cose: che era stupido non farsi covare dal letto mezzora prima per non soffrire tre quarti d’ora di tortura, che Foucault alla sua stessa età, colpito da paralisi, si era fatto montare uno specchio da lui inventato per seguire il moto degli astri sul letto dov’era immobilizzato, e che c’erano dei capelli che avrebbe tanto desiderato asciugare con il fon.

Tessere di vita

Una calda e generosa slinguata in faccia gli proiettò l’ultima scena di quell’incubo ricorrente, l’impatto inevitabile di un’onda gigantesca, senza possibilità di fuga. – Baffo! Diavolo di un bastardo, è colpa tua se non faccio che sognare tsunami. – biascicò svegliandosi e asciugando la faccia nel cuscino mentre il cane, in effetti un simpatico bastardo di media taglia peloso come un Bobtail e pezzato come le mucche delle pubblicità di derivati del latte, lo guardava scodinzolando in attesa di qualcosa che, dal tipo di effusioni, non pareva affatto essere il pasto o la solita scorrazzata nel cortile.
Non era un momento facile, era di nuovo crollato sul divano davanti alla TV, guardandovi attraverso meditabondo tra una lattina di birra e l’altra, pensando all’unica mossa possibile per un pedone di cinquant’anni separato e rimasto senza lavoro come lui.

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I tempi dell’occasione di saltare due caselle anziché una erano lontani. Provava per la prima volta nella vita cosa significa sentirsi un pezzo sacrificabile nella scacchiera dell’esistenza. Doveva smettere di considerarsi un pedone o quanto meno, illudersi che non lo fosse, in qualche modo forse lo avrebbe aiutato. Una vita intera da dipendente, se non era per un capo era per l’alcol, anche se mai esagerando, come per il fumo. Sarebbe stato difficile. Avvertiva forte nelle gambe l’ansia del tramonto dell’energia osservarlo beffarda e inesorabile nella nebbia della rassegnazione d’aver superato il mezzogiorno della sua vita. Per fortuna c’era Baffo. – Ho capito cosa vuoi, razza di mocho sbiasciante. – La luce e i suoni che filtravano dall’esterno davano l’impressione di una di quelle giornate talmente nitide da voler rimproverare i sensi tardivi ad adattarsi. Quegli ultimi due giorni di ottobre aveva piovuto quasi senza interruzione. Preparò e mise la caffettiera sul fornello, quindi, sospinto dall’irrequieto quanto festoso Baffo, spalancò la porta di casa ricevendo in pieno viso tutta la potenza di quel mattino così limpido che era sul punto d’esplodere, sembrava di sentire il rumore del sole. Baffo, dopo aver ispezionato spedito il cortile e l’aiuola dei limoni si era appeso con le zampe anteriori al cancelletto, esprimendo chiaramente che era oltre quell’ultimo ostacolo che risiedeva la vera felicità: la sua adorata spiaggia dorata. Il sabato mattina e con quel sole splendente la spiaggia sarebbe stata sicuramente affollata, avrebbe dovuto tenere Baffo al guinzaglio e l’idea di essere trascinato dall’esuberante quadrupede a velocità da flipper non lo attirava per niente, ma come l’avrebbe detto al mocho che lo guardava speranzoso e scodinzolante ormai appeso al cancelletto? Volse lo sguardo alla collina che separava in due la costa, a destra la spiaggia delle loro passeggiate, con tutti i suoi lidi ordinati, chiusi in attesa della stagione balneare successiva, a sinistra la spiaggia di serie b ferita dall’ampia foce del fiume, traguardo estivo di umanità meno abbiente, fuori stagione era desolata e vittima delle piene che la ricoprivano di ogni tipo di residuo trascinato, strappato alla terra dalla forza del fiume che ne rapiva anche il colore. Baffo non ce lo aveva mai portato. Pensò che la pioggia non era stata così forte e che la spiaggia in fondo poteva essere decente. L’ombra del flipper, il suo mal di testa e l’irrequietezza latente di dover rompere con le abitudini, spostarono l’ago a sinistra della collina. Si fermò a distanza dalla foce, al bordo della pineta che separava i campi incolti dal mare. Non fece in tempo ad uscire per aprire lo sportello a Baffo che quello saltò fuori dal finestrino prima che l’auto fosse ferma, guadagnandosi una maledizione. L’indiavolato sparì nella pineta assieme agli inutili concitati richiami. Cominciava a pentirsi per quella scelta, prese il guinzaglio, chiuse l’auto e si lanciò all’inseguimento. Trafelato nel mezzo della pineta gli giunse l’abbaiare ostinato di Baffo coperto a tratti dal fragore del mare che doveva essere bello mosso. Gli si presentò una scena piuttosto comica, a una decina di metri dalla riva un grande tronco beccheggiava smosso dalle onde protendendo minaccioso i rami verso Baffo che ne seguiva il movimento facendo avanti e indietro, abbaiando e ringhiando inferocito quanto atterrito da quel drago ligneo rigurgitato dal fiume. Durò il tempo di adocchiare un gruppo di gabbiani e lanciarvisi contro latrando a palla di cannone. Al contrario di quanto aveva supposto, la piena era abbondante, il mare era color fango e c’era stata una forte mareggiata, la spiaggia era piena di ogni tipo di relitto di origine umana e naturale. Quanto era stata stupida la sua ipotesi sulla quantità di pioggia di quei due giorni, i fiumi sono lunghi e l’acqua che cade può essere più o meno intensa già di quella a qualche chilometro da te. Riconobbe in lontananza la sagoma di ciò che sembrava essere un animale morto arenato sulla spiaggia. Baffo andava dritto in quella direzione. Non osava neanche immaginare cosa avrebbe fatto quel disgraziato, quindi cominciò a correre sgolandosi per richiamarlo. Per fortuna arrivò giusto in tempo per dissuaderlo dall’avvicinarsi. Era una povera pecora così gonfia che sembrava stesse per esplodere, con le quattro gambe puntate verso il cielo gli sembrava esprimere come un macabro gesto di vittoria, era come se gli gridasse – Son finite le mie pene, sono libera finalmente! – Questo gli fece venire scuri pensieri che ultimamente lo tormentavano. Decise che era il momento di farsi una corsetta insieme a Baffo ed allontanarsi il più possibile dalla foce. Quando il fiato stava cominciando a venirgli meno ed era quasi sul punto di fermarsi, percepì una forma inusuale sulla quale stava per affossare i piedi e la superò con un salto che lo fece finire sfinito seduto sulla sabbia. Sì voltò e vide diversi sacchetti di plastica appiattiti nella sabbia, ognuno dei quali conteneva sassolini, conchiglie e frammenti, tappi di bottiglia, pezzi di plastica, vetrini e quant’altro si può trovare su una spiaggia di minuto, diviso rigorosamente per colore. Notò anche delle orme che puntavano verso la pineta. Non vide più Baffo e cominciò a chiamarlo ma niente, del peloso neanche l’ombra. Preoccupato cominciò a seguire le orme, vicino c’erano anche quelle di un cane, certamente Baffo. Proprio alla fine della spiaggia prima della pineta, appena aggirato un cespuglio se lo trovò davanti che si abbeverava da un mezzo pallone di gomma pieno d’acqua accanto ad un vecchio con una specie di impermeabile verde e rattoppato che lo carezzava sereno. Si avvicinò a loro dicendo buongiorno, il vecchio ci mise un po’ a rispondere, in francese e senza degnarlo di uno sguardo. Doveva essere un Senegalese, da quelle parti ce ne erano molti che giravano, soprattutto l’estate come venditori ambulanti sulle spiagge. Richiamò subito il cane, d’istinto, ma sembrava che Baffo non ne volesse sapere, continuava a prendersi quelle carezze come ammaliato, allora si avvicinò protendendo il guinzaglio ma sia il cane che il vecchio lo guardarono con aria delusa. Il vecchio si alzò in piedi e sorridendo gli fece capire con la sua lingua babelica mista di dialetto locale e francese che non era il caso, che gli animali vanno rispettati, e si incamminò verso la spiaggia seguito da Baffo. Sollevò lo sguardo in aria infastidito e li seguì, quel Giuda di un cane sembrava già aver cambiato padrone. Il vecchio si mise a sedere vicino alle buste piene di frammenti colorati e Baffo si accucciò accanto a lui. Tentò ancora di richiamarlo mostrandogli il guinzaglio ma ormai era come se non avesse più potere su lui. Il viso sereno e magnetico del vecchio e il fatto che era tanto tempo che non vedeva Baffo così tranquillo, fecero presa e si mise a sedere. Il vecchio gli chiese come si chiamava il cane e lui, visto che non riusciva a fargli capire il nome con le parole, fece il gesto di attorcigliarsi un baffo immaginario e quello scoppiò a ridere toccandosi i suoi, grigi sopra la lunga barba. Dopo una lunga pausa il vecchio cominciò a parlare indicando il mare, se stesso e i frammenti colorati. Quello che lui riuscì a carpire gli diede l’idea che il destino avesse sospinto quel poveraccio fuori dal senno. Diceva che sua figlia, il marito e i loro due bambini, i suoi nipoti, erano nel mare, che il mare stesse poco a poco restituendoglieli e lui li raccoglieva ogni giorno pazientemente, da anni. Sua moglie invece sembrava essere aldilà dell’orizzonte, verso sud. Il vecchio tracciò delle verticali con la mano perpendicolare all’orizzonte, prima verso il cielo, poi verso terra, poi di nuovo verso il cielo, quindi pose la mano sul petto e respirò profondamente ad occhi chiusi, come se solo quella brezza potesse restituirgliela. Cominciava a sentirsi male in quella situazione, lo inquietavano quel vecchio e il suo destino, gli facevano riaffiorare il suo che quel giorno voleva proprio dimenticare. Fece per alzarsi risoluto, voleva prendere Baffo e tornarsene a casa ma il vecchio gli afferrò un polso e lui rimase così stupito dalla forza insospettata e dalla vista di quegli occhi lucidi e imploranti che rimase a fissarlo. La stretta si sciolse, il vecchio si alzò in piedi chiedendogli di aiutarlo a prendere le buste e seguirlo. Si inoltrarono nella pineta, il vecchio si fermava ogni tanto a raccogliere arbusti e a metterseli sotto il braccio finché non ne fece una fascina. Arrivarono ad un piccolo scheletro in cemento armato fatiscente, con i ferri arrugginiti a vista, corroso dall’aria di mare e nascosto in un’area della pineta che era piena di cespugli. Il vecchio sospinse la porta, una pedana di legno incardinata e tessuta dai rampicanti. C’era una sola stanza, in terra un materasso poggiato su un consunto scafo in vetroresina e sul lato, vicino l’apertura di una finestra, un focolare su cui aveva ricavato una sorta di cappa fatta di lamiere in metallo ritorte ed accostate. Il vecchio sistemò gli arbusti, accese il fuoco e lui percepì l’ingegno di quel precario adattamento. Più tardi, mentre Baffo si era appisolato davanti al camino come se avesse dovuto rifarsi da un millenario sonno e stavano sorseggiando un ottimo caffè nonostante i mezzi, il vecchio, che aveva ormai ascoltato tutto della sua storia da pedone cinquantenne dall’incerto destino, prese un tizzone a mo’ di torcia dal camino e gli chiese di seguirlo attraverso una porta che sembrava mimetizzata, fatta da un nylon grigio dello stesso colore del cemento. In quest’altra stanza, a terra, c’era una base di sabbia sul pavimento di cemento armato su cui aveva incastonato tutti quei frammenti colorati che raccoglieva sulla spiaggia formando dei mosaici, c’erano le immagini dei suoi cari ricomposte con i colori della sua terra, c’erano il mare in tempesta ed una nave. Il vento ancora doveva finirlo, disse che era il più difficile da fare. Quel vecchio riceveva dal mare poco a poco ciò che gli era stato tolto e lo ricomponeva pazientemente giorno dopo giorno. Un anno dopo, due coniugi inglesi, turisti di passaggio, entravano dentro la bottega di un negozio di mosaici artigianali, notandone uno ricchissimo di colori e particolari appeso dietro la cassa. Raffigurava un maestoso cavallo alla carriera tra i pezzi immobili di una scacchiera dai colori del mare in tempesta. Ne chiedevano il prezzo. Gli veniva gentilmente risposto che quel pezzo non era in vendita. Un po’ delusi, voltavano lo sguardo incuriositi da un vecchio che parlava pacioso sottovoce ad un cane peloso e pezzato, nel retrobottega.

Pelle

Questo racconto è del 2011, Noemi è una modella “locale”alla disinibita ricerca di un ricco “pollo” da spennare.

Sono quasi le due del pomeriggio. Silvano e Noemi sono in spiaggia stesi sugli asciugamani. Silvano dorme a pancia sotto. Dalle undici, ora in cui sono arrivati, lui non ha fatto altro che stare al cellulare finché lei l’ha costretto a spegnerlo, hanno fatto un brevissimo bagno e uno spuntino, poi lui è crollato in un sonno pesante appena raggiunta l’orizzontalità. Noemi fissa quel piccolo spot più scuro che va lentamente espandendosi sull’asciugamano sotto la bocca socchiusa di Silvano che adesso comincia a russare, gocciolando un esile filo di saliva di tanto in tanto… ha quasi quarant’anni. Lei ventiquattro.

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Dopo il diploma di maturità strappato con il minimo dei voti e degli sforzi all’istituto magistrale non ha fatto più nulla, salvo passare da un bipede porta-portafoglio all’altro come fa un ape intorno a un pesco in fiore e partecipare a sfilate e concorsi di Miss «qualsiasi cosa»: regioni, città, paesini, auto e moto, maglietta bagnata, pizza e via così. Un giorno, mentre sfilava sulla passerella del concorso di Miss Cassata in una nota località siciliana, aveva notato Silvano. Sì, era un po’ troppo piazzato forse, con pochi capelli, vero, ma com’era elegante quel completo sabbia abbinato al colore rossiccio delle basette ed alla montatura degli occhiali. Come era abile e sicuro nel maneggiare il cellulare. Lui, da gran pavone in fase corteggiatrice, le stava dedicando quella specie di danza mentre parlava animatamente al telefono addirittura molleggiando su un piede solo. Lo sguardo vispo e roteante, concentrato in chissà quali importanti trattative, riusciva addirittura a lanciarlo ammiccante verso lei, luminosa in mezzo a tutte quelle cassate. Le disse di essere imprenditore nel settore dolciario. In realtà lui di dolci, salvo sapere esattamente come ingollarli senza sporcarsi le dita, non ne sapeva più di lei e col tempo si rivelò un mediocre faccendiere in barba, scalciato ansiosamente in politica dall’azienda dolciaria di famiglia. Le aveva subito promesso di farla entrare in televisione ma fino ad ora ce l’aveva solo messa davanti, a guardarla, e nemmeno insieme perché si alzava ogni cinque minuti aspirato dal telefonino. Anche ora, mentre lo osserva dormire, le sembra fotocopiato sull’asciugamano nella stessa identica posa: il braccio sinistro disteso e il destro piegato all’insù, con la mano accanto all’orecchio solo vuota del cellulare. Stufa del ronfare e annoiata da quella specie di clessidra liquida tra la bocca di Silvano e l’asciugamano, gli si sposta accanto alla schiena e comincia delicatamente ad estrargli i punti neri scovandoli sul dorso peloso, concentrata al massimo per non svegliarlo. È una cosa in cui Noemi si sente abile. Ogni volta la prima cosa che fa quando lui si sveglia è di comunicargli orgogliosa che gli ha estratto tutti i punti neri mentre lui nemmeno se n’è accorto. «Hai le mani d’oro», risponde dedicandole un flash entusiasta che sfuma mezzo secondo dopo, mentre riaccende il telefonino e se lo impianta di nuovo all’orecchio. In realtà non si è mai posto il problema di averceli o no quei punti, però lei è felice con quel contentino. Ha promesso di aprirle un centro estetico con palestra, sauna, idromassaggio e depilazione nucleare, che lei non sa cos’è, però pensa che dal nome dev’essere qualcosa “ultimo grido di generazione”. China sulla schiena di Silvano, continua impegnata le sue delicate operazioni chirurgiche alternando le unghie degli indici a quelle dei pollici mentre un pacioso e canuto signore anziano, magro e semi-pelato con dei gran baffoni bianchi sdraiato prono a qualche metro da loro, sta osservando rapito la scena rievocante un documentario sulla vita dell’ippopotamo e del suo utile e fedele compagno: l’uccellino parassitario. Quando ricorda l’immagine dell’enorme pachiderma con la bocca spalancata che placido e sonnacchioso si lascia nettare i denti dal minuscolo volatile piluccante, sbuffa spettinandosi i baffoni in un riso trattenuto. Noemi alza lo sguardo e lo tana con un cipiglio. Quello arrossisce e si gira dall’altra parte ancora singhiozzante. «Cafone.», pensa lei. Ritorna al suo delicato lavoro rimuginando seccata al perché siano dovuti venire proprio in quel piccolo centro balneare le uniche due settimane di vacanze estive. Odia quel posto, è poco conosciuto e pieno di extracomunitari. Silvano le aveva detto che proprio lì, invece, avrebbe potuto avvicinare delle persone importanti, dei VIPS. Gli serviva essere assolutamente lì per il suo lavoro. «Vedrai, vedrai, vedrai!», le aveva detto. Noemi, finito ormai di piluccarlo, si mette supina poggiandosi sui gomiti, lo sguardo pensieroso verso il mare. D’un tratto nota all’orizzonte, oltre le boe di salvataggio, due braccia che si sollevano come per chiedere aiuto. «C’è qualcuno che affoga laggiù?», si domanda alzandosi in piedi di scatto e correndo verso il bagnasciuga. Vede di nuovo quelle braccia alzarsi verso l’alto. In preda all’agitazione corre verso il lettino del bagnino impegnato in una partita a scopa con l’aiutante e gli grida che qualcuno, al largo, sta per annegare. Scatta in piedi e guardando in quella direzione ordina al collega di andare a tirare il pattino in acqua, poi prende il binocolo mentre lei gli strilla di sbrigarsi richiamando l’attenzione della gente. Per il clamore, si è formata una piccola folla sul bagnasciuga e tutti guardano in direzione di quelle braccia che si sollevano. Un attimo dopo il bagnino abbassa il binocolo e guardando Noemi negli occhi e in periferia con un espressione fra il canzonatorio ed il sensuale, avverte ad alta voce l’aiutante e la folla sul bagnasciuga che si tratta di qualcuno che nuotando sul dorso sta venendo verso riva. Dei «Lo sapevo…» seguiti da risatine e commenti vari si espandono qua e là, dispersi dalla brezza pomeridiana. Lei, di tutti i colori, prima di tornare all’asciugamano lancia un occhiata di disprezzo al bagnino ammiccante, sentendosi osservata e derisa da tutta la spiaggia: «Cafoni!». Silvano intanto continua a russare come se niente fosse accaduto, l’alone di saliva si è allargato fino ad impregnare anche l’asciugamano di Noemi. Si mette seduta continuando a guardare quelle braccia che alzandosi quasi sempre con la stessa cadenza hanno appena superato le boe e si avvicinano alla riva. Sentendosi ancora troppo osservata, decide di andare a fare un bagno dando un ultima occhiata stizzita al pacioso signore con i baffi che invece la guarda benevolo. «Cafoni, cafoni, cafoni!», pensa mentre entra in acqua. Le due braccia natanti sono vicine. Lei avanza in acqua e si immerge fino al collo, poi si gira verso la spiaggia per aspettare e spiare inosservata l’origine della sua figuraccia. Ormai sente il rumore delle bracciate al suo lato. Il colpevole emerge. Noemi finalmente lo vede, di profilo. Alto, un Davide bronzeo, con i capelli brizzolati, il viso armonioso ma anche duro. Non riesce a staccargli gli occhi di dosso. Davide, si chiama proprio così, si sciacqua il viso e si passa le mani sui capelli, si scrolla agitando i muscoli asciutti, poi percepisce la presenza di qualcuno al suo lato e si volta. Si trovano faccia a faccia. Lei continua a fissarlo, ipnotizzata dal suo corpo statuario, dal viso disteso profondamente solcato e disegnato dal vissuto, un contrastato chiaro-scuro di esperienze e segni di espressione illuminato da quegli occhi verdi e intensi. Lui, invece, rimane un attimo indifferente, si volta e continua a camminare tranquillo verso riva. Lei riemerge dallo stato di trans e poi, incredula e risentita di non aver mietuto un altra vittima con il suo fascino di Miss Qualsiasi Cosa, gli tiene gli occhi addosso aspettando l’emersione dei glutei e scommettendo vendicativa di riuscire a trovare sicuramente un difetto in quel Davide di Riace, almeno nella sua metà ancora sommersa. «Avrà il sedere basso e appeso… le gambe corte o storte, le ginocchia sporgenti, i piedi troppo piccoli, troppo grandi o piatti?». Appaiono i glutei. Alti e muscolosi sotto lo slip nero attillato. «Fuori uno. Sono perfetti…», rimugina con un brivido che le sale sulla schiena senza accorgersi che il labbro inferiore le è calato dandole l’espressione di una bimba che mangia con gli occhi una bellissima torta dietro una vetrina, la bocca semi-aperta ad appannare il vetro e gli occhi semi-chiusi. La “torta”, che ora è a pochi metri, si volta all’improvviso prendendola alla sprovvista e immortalandola in quella smorfia libidinosa . Lei si ricompone e fa subito finta di guardare oltre. Lui la guarda studiandole serio il viso per qualche secondo, con il fare di chi ha l’impressione di riconoscere qualcuno. Poi, come rassegnato, accenna un sorriso si volta e continua a camminare verso riva. Noemi lo ricambia troppo tardi, rossa ed impacciata lo vede già di spalle. Interpreta quell’atteggiamento a modo suo: «l’ho steso!», realizza ringalluzzita. Continuando a seguire con lo sguardo Davide che ormai è sulla spiaggia e cammina elegante e senza un difetto verso il lido, si rende inconsciamente conto della potente reazione del suo corpo a quell’incontro, sente freddo ed ha la pelle d’oca. Esce e torna all’asciugamano dove trova Silvano nella solita posizione: sembra caduto da un terzo piano continuando a parlare al cellulare fino all’attimo prima dell’impatto. Pensando ancora a quella bronzea opera d’arte in marmo umano che ignara che lei abbia cercato di salvarle la vita inutilmente per di più l’ha praticamente snobbata, si accende con le mani tremolanti una sigaretta, tira avidamente una boccata e si stende supina al sole. Il modo in cui l’ha guardata, ripensandoci, le sembra strano. Le ricorda quello di suo padre, un giorno, aveva otto anni: si era persa proprio in spiaggia e dopo ore che vagava piagnucolando tra la gente passando da un lido all’altro le era apparso d’improvviso suo papà che, non avendola ancora vista, la cercava ansioso tra gli ombrelloni. Stava quasi per chiamarlo quando lui finalmente la vide. Conserva il ricordo di quello sguardo durato tre secondi forse, non di più. Era denso di cose. Vide in quegli occhi stupore, sollievo, felicità, gratitudine e paura passare velocissimi per essere cancellati infine, scaduti i tre secondi, dalla rabbia. Purtroppo si ricorda molto bene anche quell’ultima perché era quello lo sguardo che vedeva più spesso negli occhi di suo padre e quel giorno le aveva prese di santa ragione. Lui lavora sulle navi e non l’ha visto e non lo vede quasi mai. Quando ha bisogno di aggrapparsi a suo padre va alla ricerca di quei tre secondi e di poche altre manciate più o meno simili. Aspira di nuovo una boccata e pensa: «Se sommo tutti questi secondi ce l’avrò almeno un minuto di buoni momenti con papà?». A volte ha la sensazione di inventarseli ma sui tre secondi di quel giorno al mare potrebbe metterci la mano sul fuoco. Quell’uomo venuto dal mare, prima, l’ha guardata in quel modo e i secondi non li ha cancellati con la rabbia ma con un sorriso. Le batte il cuore ma è convinta che sia la sigaretta. Spegne la cicca nella sabbia rassicurandosi: «Ho avuto la pelle d’oca perché quello mi ha messo in imbarazzo, io sto per sposarmi. È carino sì ma ne ho visti tanti così e guarda alla fine chi ho scelto: uno sveglio, che ci sa fare con la gente e un giorno avrà successo e potere. Quello magari se gli sorridevo mi attaccava bottone. Che stupido, come si fa a perdere la testa in così poco tempo? L’ho proprio steso…». Un suono stridulo, fine corsa piroettante di un palloncino sgonfiato, la scuote bruscamente dai suoi pensieri. Silvano si risveglia dalla pennichella con un tragico peto straziato, suscitando un nuovo ilare sbuffo del signor baffoni bianchi ancora prono lì vicino e la reazione indignata di Noemi: «Silvano!!!», che poi fulmina il baffoni costringendolo di nuovo a voltarsi singhiozzante dall’altro lato. Silvano riemerge alzando la faccia rossa grigliata dalle pieghe dell’asciugamano e ignaro del palloncino: «Eh? Che…che c’è? Amore… Che…. eh?». Lei prende fiato per rispondergli ma se ne pente acremente con una smorfia disgustata: «La devi smettere con le cozze! Lo sai che ti fanno male, no?! Vado al lido a prenderti un’acqua tonica!». Sibila asfissiata con un fil di voce. Mentre si alza nota baffoni bianchi, ormai con gli occhi lucidi, che continua a osservarli pacioso, come grato di quei memorabili momenti. Stavolta lei sbotta: «Cafone!». Silvano: «Ma… Noemi…». Stizzita: «Non ce l’ho con te amore, non ti preoccupare! Torno subito!». Entra nel lido. Al bancone c’è una ragazza bassina, magra e occhialuta con una bandana giamaicana, più o meno della sua età che appena la vede sgrana gli occhi dietro i fondi di bottiglia e le fa: «Ma… io ti conosco! Tu sei Miss Salsiccia e Limone 2009!!! È vero o non è vero?». I presenti nel lido si voltano, qualcuno ridacchia. Noemi che vorrebbe scomparire le risponde a voce bassa: «Ehm… No!. Si… Sono io…». «Come sei bella! Che onore!!! E cosa ti posso offrire? Dai, non fare i complimenti! Offre la casa!». Noemi pavoneggia sostenuta poggiandosi al bancone: «Due acque toniche. Grazie!». Mentre la barista continua a parlare, si mette a guardare le foto attaccate sul muro. Ne nota subito una con il bel falso annegante insieme alla barista e ad un altro ragazzo. Incuriosita chiede: «Scusami, posso chiederti chi è quel ragazzo in quella foto? Mi sembra di conoscerlo.» «Quale foto? Questa? Ci siamo io, mio fratello Filippo e Davide, l’istruttore di vela e windsurf.» le risponde la barista puntando il dito. Noemi: «Ah, Davide… Ed è di queste parti?». «No, lui si sposta. Vive su una barca nel porticciolo. Viene ogni anno, solo due mesi, poi se ne va. Sardegna, Spagna, Africa, Grecia … viaggia. Era uno famoso con le barche a vela. Le costruiva lui e faceva anche le gare. È ricco sai?», Noemi avverte un brivido, « Poi un giorno si è stancato e si è messo a girare di porto in porto. Fa qualcosa qui, qualcosa lì. Perché lo conosci? È bellissimo… eh?», le fa sorniona. Noemi contenuta: «Si…no… somiglia a qualcuno che…. mi sembrava di conoscerlo… ma quanti anni ha?». «Eh…. Se te lo dico non ci credi! Indovina!». Noemi: «Trentaquattro? Trentasei?». La barista ride: «Lo sapevo! Nessuno ci azzecca mai! Ne ha quarantasette!!! Non glieli davi mai eh? È troppo bello! Daviduzzo mio!». Noemi prende le acque toniche, ringrazia e torna in spiaggia. A pochi metri da Silvano, lo vede seduto già con il cellulare all’orecchio, questo non la meraviglia, quello che la fa trasalire è che mentre sta al telefono lo copre ogni tanto con la mano per rivolgere qualche parola smanceroso all’odiato signor baffoni il quale ricambia affettuoso. Con lei non parla mai quando è al telefono, al massimo solo per chiederle qualche servizio. Gli si siede accanto poggiandogli l’acqua tonica vicino e gli sussurra nell’orecchio libero: «Ma come fai a parlare con quello lì! È un cafone! Non fa altro che spiarci da quando siamo arrivati!». Silvano tappa il telefono e le fa sottovoce: «Grazie per la tonica tesoro! Il baffone? Potenziali voti tesoro, voti, voti, voti, i suoi e quelli di tutta la sua famiglia!». Poi si gira, strizza un occhio al baffone e prosegue la conversazione: «Tano? Scusami! È la mia Noemi. Si! Siamo al mare! Vedessi che sballo qua! Ti ci porto con me l’anno prossimo! Ci vieni? Me lo prometti? Tanuzzo!!! Allora, sentimi bene….». Noemi si alza scocciata e va verso il bagnasciuga con la sua bibita. Si incammina sorseggiando e scorge non troppo lontano delle vele da windsurf volteggiare sul mare. Decide di andare a dare un occhiata. Nella testa le risuona l’eco di quel: «È ricco sai?», dettole dalla barista a proposito di Davide. Ad un tratto lo vede. Sta facendo lezioni ad una ragazza sulla spiaggia, lei è in piedi sulla tavola, tengono insieme la vela mentre lui le da spiegazioni. Noemi gli passa accanto lentamente fingendo di essere interessata a quello che fanno. Davide non si accorge neanche della sua presenza e continua placido a dare la sua lezione. Lei avanza qualche decina di metri oltre e torna indietro. Stavolta passa così vicina quasi da poterli toccare, tanto che l’allieva la nota, ma Davide, concentrato, non facendo caso a Noemi nemmeno in quel frangente invita tranquillo la ragazza a non distrarsi. Noemi, infastidita, si avvia decisa verso il club di windsurf notando l’insegna sotto il lido lì accanto. Fuori c’è un ragazzino seduto intento a trafficare con il cellulare. Gli chiede quanto costa una lezione individuale. Quello, dopo una breve pausa sul generoso davanzale di Noemi, la guarda in viso un po’ intontito e le risponde balbettante cinquanta euro l’ora e mezza. Lei, sprezzante, gli dice, indicandoglielo, che vuole Davide come istruttore. Il ragazzino le risponde che Davide è già al completo ma lei insiste, o lui o niente. Gli dice che è disposta anche a pagare di più. Allora il ragazzino le chiede di aspettare un attimo e va verso Davide. Parlano un po’, Davide scuote la testa, il ragazzino insiste allora Davide guarda verso Noemi che, per un attimo, ha l’impressione che il suo sguardo sia lo stesso di quando si sono incontrati in mare poco prima. Il ragazzino torna dicendo che va bene ma per ottanta euro, potrà cominciare l’indomani alle cinque. Noemi va via soddisfatta, lasciando soddisfatto anche il ragazzino che si frega le mani per l’affare concluso mentre le ammira il di dietro ondeggiante. Noemi se l’aspetta, si gira di scatto e lo tana. «Cafone! Cambia canale!». Quello, umiliato, rientra nel suo ufficio. Tornando da Silvano rimugina che quella potrebbe essere la sua occasione. Le dispiace per lui ma tanto gli passerà, magari per indorare la pillola gli regalerà un bel Ka-Phone originale da 1200 euro appena l’avrà lasciato, ovviamente con i soldi della sua nuova conquista. Tanto è convinta ed ha la prova quotidiana che lui ama più stare al telefono che in sua compagnia e poi è stufa di quei «vedrai», perché aspettare quando può avere tutto subito? Già si immagina stesa a prendere il sole sulla barca a vela di fronte alle bellissime coste di Madrid mentre Davide, suo bellissimo e muscoloso schiavo, le porta una coppa di Sciampagn e poi si inginocchia per spalmarle l’olio sulle gambe, guardandola bramoso del suo splendido corpo che lei gli concederà, sì…, ma solo di tanto in tanto, come premio se sarà stato proprio bravo. È sicura che sia già cotto di lei e che poco prima, quando gli è passata vicino, ha di proposito fatto finta di non vederla. Sicuramente l’ha vista arrivare da lontano e sta giocando per avercela vinta e vederla cascare ai suoi piedi. È la seconda volta che la guarda e tutte e due le volte non è riuscito a nascondere quei tre fatidici secondi. Caro Davide, con me non la spunti, sono di ghiaccio io, cosa credi. Rapita da quei pensieri camminando sul bagnasciuga lo sguardo verso il mare inciampa in un castello di sabbia spianandolo e percorrendo qualche metro a quattro zampe per cercare di non cadere pancia a terra. Si rialza e si gira furibonda per vedere chi o cosa abbia rotto il suo incantesimo. Vicino al castello distrutto vede un bimbo biondino, capelli a caschetto sopra grandi occhioni blu, avrà tre o quattro anni e sebbene gli sia stata demolita la piccola opera, sembra divertito dall’acrobazia appena compiuta da Noemi e la guarda con un riso senza denti e la paletta sollevata in mano, come in segno di resa. Ma lei non ricambia il buon umore del piccolo, gli si avvicina tanto da sovrastarlo e lo apostrofa severa e minacciosa con le mani poggiate sui fianchi: «Sei stupido per caso? Ti diverti a far rompere le gambe alle persone? Chi ti ha insegnato l’educazione?». Il bimbo ha prima un brivido, poi si incupisce guardandola, mentre le labbra e il mento cominciano a tremolargli. La mamma, che ha assistito a tutta la scena, sopraggiunge rapida e protettiva mentre il suo frutto esplode in pianto. «Ma chi te l’ha data a te l’educazione! Ti pare normale far piangere un bambino di quattro anni? Mica l’ha fatto apposta. Perché invece non guardi dove metti i piedi? Gli hai anche sfasciato la costruzione!». Noemi sorpresa: «Ma…signora! Stavo quasi per cadere! Non ha visto?!». La mamma caricata dai lamenti del bimbo: «E di che ti preoccupi? Con quel popò di airbag che ti ritrovi al massimo rimbalzi e ti ritrovi di nuovo in piedi!». Dall’ombrellone di famiglia del piccolo esplodono risate ed una standing ovation. Noemi ingoia il rospo, si gira sui talloni e se ne va stizzita bofonchiando: «Cafoni! Cafoni. Cafoni…». Quando arriva trova Silvano che, oltre ad essersi già sicuramente accaparrato i voti di baffoni e famiglia, ci sta provando anche col bagnino e il suo aiutante giocando a carte simpatico e gesticolante con loro sul lettino. «Scopa!», strilla euforico sbattendo giù una carta. «Magari…» mormora il bagnino guardando sognante sorgere gli airbag di Noemi. Lei invece lo guarda con aria schifata e prega Silvano: «Ce ne andiamo? Sono stufa.». Silvano si congeda concedendo e rimandando la rivincita al giorno dopo. Mentre raccolgono le loro cose Noemi gli fa mielosa: «Amore, mi piacerebbe imparare ad andare sul windsurf…». «Il windsurf? Ma sei sicura? Guarda che è molto faticoso, ci vuole molta forza, sei certa che…». «Certo che sono sicura e poi io la forza ce l’ho, che ti credi. C’è un club laggiù, dove danno lezioni. Ho già preso appuntamento, comincio domani alle cinque.». «Alle cinque?! E tu ti vorresti svegliare alle cinque per….». «Ma no!», lo blocca, «Alle cinque del pomeriggio!». «Mh… e quanto costa?». «Ottanta euro l’ora e mezza.», risponde con un fil di voce da zucchero filato. «OTTANTA EURO!!!» muggisce imbufalito. Noemi trasformata in Heidi: «Dai Amò… non ti chiedo mai niente… fallo per la tua trottolina… e dai…». Pausa imbarazzante… «Vabbè…se tu non puoi… vuol dire che mi farò mandare i soldi da nonno.». Ah no! Da tuo nonno no! I soldi te li do io! Ce li ho cosa credi! Stavo pensando! Mi sembra solo un po’ caro… Ma almeno sono professionisti?». «Certo! Mi sono assicurata, mica sono fessa!». Poco dopo sono nel motel e mentre Noemi è nella doccia, Silvano in accappatoio sul balcone litiga al telefono con il padre per farsi accreditare altri soldi sul conto avanzando la scusa che per incontrare delle persone importanti dovranno frequentare ogni sera un locale esclusivo del posto. Alla fine, sudato, la spunta sotto la velata minaccia del padre: «Spero che almeno ne sarà valsa la pena! Silvo, il futuro di questa azienda è nelle tue mani. Tu sei l’unico erede insieme a tua sorella ma lei è fimmina, sei tu che devi prendere le rondini in mano!», «Le redini papà… le redini!», interviene Silvano sconsolato. «Si vabbè Silvo… lo hai capito il senso no? Te la devi meritare questa azienda. Non puoi capire i sacrifici che abbiamo dovuto fare io e tua madre… Tu e tua sorella avete trovato già apparecchiato, ma chi è che ha cucinato. Eh? Chi è che ha preparato tutto Silvo? Voi giovani senza manco sapere come è fatta la cucina e chi ci suda dentro, già state alla frutta! Mangiate, mangiate, mangiate! Il tuo bisnonno è migrato vestito di stracci, secco come un anguilla e con una valigia piccola piccola per l’ameri…», Silvano alza lo sguardo al cielo sbuffando silenzioso, ecco una delle rare volte in cui proprio non ama stare al telefono, «…e quando è ritornato, da anguilla si era fatto capitone e ne teneva due grosse di valigie in mano. All’America ha fatto tutti i lavori pover’uomo: ha pulito le strade, poi ha pulito le scarpe, le macchine, i piatti, i capelli….poi ha pulito le vetrine Silvo, e alla fine si è messo a spararle ‘ste vetrine pover’uomo, perché magari s’era scassato i cabasisi di pulire, pulire, pulire! RATATTATTATTATTA…», Silvano imita in silenzio la mitraglietta con gli occhi al cielo, ha sentito quella storia miliardi di volte… poi appoggia di nuovo il cellulare all’orecchio con tempismo perfetto, «….TATTATAAAA!!!! Mai mi scorderò le sue ultime parole sul letto di morte. Pentito per quell’impeto di violenza giovanile, confessò a me, suo piccolo e amato nipote, che aveva cominciato a sparare alle vetrine perché a forza di pulire, pulire, pulire…aveva avuto paura di diventare una fiiiimmina! Tuo bisnonno teneva i coglioni! E così li tiene tuo nonno! Ricordatelo! Lo ha messo lui il primo mattone e io e tua madre abbiamo continuato a posarli, uno al giorno Silvo, tutta la vita. Tu sei portato per trattare con la gente, noi lo sappiamo. Devi fare in modo da portarci la migliore materia prima al prezzo minore. Le mandorle Silvo! Pensa alle mandorle! Noi ci dobbiamo allargare se no coliamo a picco, hai capito? Se non andiamo in fondo andiamo a fondo! La concorrenza Silvo! Dobbiamo arrivare più lontano coi nostri dolci. Anche agli esteri se ci riesci! Noi non vogliamo che entri da quella porta là Silvuzzo, hai capito bene quale porta. Quella è più facile ma non per quelli come te, è pericolosa per te, tu sei troppo raffinato. Tu devi entrare da quell’altra, quella dei voti, che tanto è la stessa cosa, solo che è legale Silvo, è pulitica.». «Politica papà…politica!», lo interrompe Silvano stancamente. «Si vabbè… politica, pulitica… è la stessa cosa…. l’importante è che non ti devi sporcare le mani, quello lo fanno altri, le tue sono delicate. Tu devi solo fare qualche saldatura dove e come si deve, collegare i fili dove vanno collegati, poi schiacci bottoni, lasci passare corrente e basta. Seduto comodo dietro alla scrivatua…». «Scrivania papà… Scrivania!», lo ferma Silvano boccheggiante. «Si vabbè… la scrivatua, la scrivamia… o di chicchissia, è solo un mobbile di legno! L’importante è che devi essere preciso! Hai capito? Noi siamo vecchi Silvo! Ci devi pensare tu. Tutto è nelle tue mani. Tanto qua dentro eri buono solo a mangiare e chiacchierare, non sei fatto per stare qua dentro. Tu ti devi arrampicare Silvo e finiscila di mangiare troppo… che per arrampicarsi bisogna essere leggeri, secchi, bisogna avere fame per arrivare… Anguille! Bisogna che fai l’anguilla! Come tuo bisnonno…». Silvano lo interrompe in un timido moto ribelle: «Eh… ma le anguille scivolano papà, non si possono mica arrampicare…». «Non fare il cretino con me Silvù! Porta rispetto a me e soprattutto alla buon’anima di quell’angui… ma che mi fai dire… alla buon’anima di quel grand’uomo che era tuo bisnonno hai capito? Se non è l’anguilla allora fai la serpe, la lucertola, il ragno, il rospo o la bestia che vuoi tu! L’importante è che ti meriti quest’azienda Silvo! Mo’ ci dobbiamo mettere a fare i pieroangeli con gli animali… Come sei fesso! Svegliati figlio mio, svegliati! E a proposito di fessi…Stai attento a quella! Stai a sentire tua madre che ci ha il sesto e pure il settimo di senso, perché ti vuole bene. Quella Silvo… quella lì… come te lo devo dire… insomma, si vede che… è un po’ zocc…». Silvano sudatissimo comincia a strofinarsi il cellulare sul petto peloso e a strillare: «Papà? Non ti sento, c’è un disturbo! Mi raccomando i soldi! Che? Non ti sento più! Ciao! Bacia la mamma! Ciao! Ciao, ciao…». Chiude il cellulare stremato ma orgoglioso di essersi inventato quella tecnica per troncare le telefonate. Noemi esce dalla doccia ed appare in camera da letto in accappatoio. Procace volpe, ha già intuito il risultato positivo della telefonata solo guardando Silvano pallido ed esausto ma sorridente. Decide di ricompensarlo. Eccitata dal fatto che quella sarà forse l’ultima volta che gli si concederà e soprattutto ripassando, sempre inconsciamente, a memoria il marmoreo e bronzeo corpo di Davide, gli sussurra: «Amore… sei tutto sudato, vieni, siediti qui…». Gli sfila il cellulare, lo spegne e lo getta sul letto, prende Silvano per mano delicatamente e lo accomoda seduto su una poltroncina. Standogli in piedi davanti, si scioglie la cinta dell’accappatoio lasciandogli intravedere solo uno spiraglio verticale di nudità. Si avvicina a lui ipnotizzato, gli scioglie la cinta dell’accappatoio e lo apre appena, struscia le punte dei capelli ancora gocciolanti risalendolo dal basso fino al petto ansimante, scivola con le ginocchia sui braccioli, lo accoglie adagio aiutandosi leggermente con le unghie pungenti e si rilascia lentamente a ca-val-car-lo asfissiandolo con gli airbag voluminosi. Quelle quattro sillabe più un secondo dopo, un lungo, crescente muggito tremulo, raschiato ed inquietante attraversa la sottile parete del motel turbando la pennichella del signor baffoni e sua moglie affittuari della stanza accanto che supini si sgranano a vicenda gli occhi paralizzati dal terrore stringendosi una mano, infine sfuma in una sorta di barrito acuto e strangolato. Venti secondi dopo i cinque, muggito e barrito compresi, Silvano è bianco e asmatico sbracato sulla poltrona. Noemi in bagno a pettinarsi: «Usciamo?». Lei sa molto bene come fare in fretta con lui. Non è difficile. Il giorno dopo sono di nuovo in spiaggia e Noemi non sta nella pelle aspettando che si facciano le cinque per andare a coronare il suo segreto sogno di gloria. Non fa altro che figurarsi il suo futuro prossimo, ricco di viaggi e di serate di gala, ricco di gioielli, ricco di vestiti e di… ricco. Silvano, con il suo fine istinto da animale sociale, di cui la natura lo ha generosamente provvisto, fiuta qualcosa di diverso in lei: «Amò, stai bene? Ti vedo un po’ persa… Non ti ho mai vista così. Anche ieri sera, mi sembravi un po’ distante.». Lei in calcio d’angolo: «Eh? Io? Ah… non so. Mi sa che mi stanno venendo…». «Ma se le hai avute la settimana scorsa!». «Eh? La settimana scorsa…? Beh… lo sai che ho il ciclo molto irregol….». Per fortuna squilla il cellulare di Silvano e una volta tanto è grata a quel dispositivo. Decide di passare la mattinata ad abbronzarsi e a nuotare. Deve preparare al meglio il fisico per il grande momento. Verso le tre del pomeriggio, mentre Silvano gioca a carte con i bagnini, nota di nuovo le braccia falso allarme e figuraccia del giorno prima. «È lui!», realizza sgranando gli occhi. Le viene un lampo di genio e si avvia verso il mare con un progetto preciso: vuole sciogliere il ghiaccio subito in modo da non perdere troppo tempo dopo, all’appuntamento delle cinque. Va verso Davide che ha superato da poco le ultime boe di salvataggio e quando è sicura di non toccare più lo aspetta nuotando sul posto. Quando lui le è quasi a fianco, ad una decina di metri, fa finta di essere in difficoltà e comincia la farsa: «Aiuto! Per favore! Aiutatemi! Ho un grampio!» ma, cercando anche di non attrarre l’attenzione della gente sulla spiaggia, calcola male l’intensità dei lamenti perché Davide, che nuotando sul dorso ha le orecchie immerse in acqua, non la sente affatto alternando tranquillo le sue bracciate regolari. Sta quasi per decidersi ad alzare il volume quando sente alle spalle una vocina: «Signorì! Signorì! Che succede? Aspettate! Vi aiuto io!». È il signor baffoni con tanto di maschera e boccaglio. Non ne ha avvertito la presenza perché troppo presa a studiare la traiettoria di Davide. «Noooooo!!!» non fa in tempo a urlarsi dentro che quello già le ha agganciato un braccio sotto gli airbag e nella foga di eroico salvatore le spara una cornata con il tubo del boccaglio in un occhio. Lei a quel punto urla davvero. Lamentandosi del dolore all’occhio e immaginando la catastrofe del risultato estetico, cerca disperata di liberarsi dalla presa del povero benintenzionato baffoni il quale, invece, convinto che se lei sta gridando in quel modo è perché sta male davvero, vuole assolutamente salvarle la vita, forse anche per riscattarsi del «Cafone!» incassato il giorno prima. Si libera deciso della maschera gettandola e cerca con tutte le sue esili forze senili di riportarla a riva. Ci sta riuscendo tranquillamente se non fosse che lei, esasperata dalla situazione imbarazzante, cerca di divincolarsi con uno scatto improvviso e senza volerlo gli molla una gran gomitata sul mento slogandogli di lato l’esile mascella . Il povero baffoni, va un attimo giù, tracanna un bel quartino d’acqua di mare attraverso la bocca distorta ma riemerge eroico e non molla la presa. Quando si accorge di non riuscire più a respirare, però, va in panico avvinghiandolesi tossendo, con la mascella di lato e gli occhi rossi fuori dalle orbite. Terrorizzata alla vista di quella specie di Totò-zombie baffuto che non vuole mollarla e ora la fissa lamentoso con una smorfia contorta incastrata tra i seni, schifata lo disincaglia dalla morsa mammillare ma, così facendo, va giù anche lei tenendogli compagnia nella bevuta. Per fortuna quel clamore richiama l’attenzione di Davide che nel frattempo è ormai a pochi metri dalla riva. Prima di tuffarsi e nuotare verso i due che ormai annaspano in una specie di rissa fatta di grida, spruzzi e lamenti da oltretomba, con un fischio richiama l’attenzione del bagnino e quindi anche quella di Silvano. In dieci secondi, che in certi casi possono essere anche troppi, Davide, che è appena reduce da una nuotata di qualche chilometro, riesce ad essere sul posto. Si rende conto che il più grave è il baffoni che ormai sta quasi perdendo i sensi, lo afferra e grida a Noemi, che pur tossendo e respirando a fatica ancora riesce a tenersi a galla, di resistere qualche secondo. Comincia a trascinare faticosamente il povero baffoni verso riva. Per fortuna il pattino con il bagnino, l’aiutante e Silvano che urla verso Noemi terrorizzato, gli è già incontro. Ancora in corsa tirano su baffoni quasi esanime mentre Silvano, preso dall’agitazione fa avanti e indietro sul pattino facendolo oscillare paurosamente con il suo importante peso indeciso se tuffarsi, finché Davide non gli ordina brusco di sedersi e stare fermo se non vuole peggiorare la situazione. Il bagnino si tuffa e recupera Noemi. Davide la tira sul pattino. Entrambi i superstiti sputano polmoni ed acqua salata ma sono salvi. Sulla riva si è formata una gran folla che come approdano scoppia in un grande applauso liberatorio. Noemi piange avvolta nell’asciugamano seduta sul pattino vicino a Silvano che tenta maldestramente di consolarla, coscientemente imbarazzato dalla sua poca presenza di spirito in quella occasione. Per sua fortuna il cellulare squilla, sfiora un bacio poco convinto sulla fronte di Noemi e corre all’asciugamano per rifugiarsi nell’ennesima telefonata. Il povero signor baffoni invece sta buscandosi una ramanzina da sua moglie mentre cerca di rimettersi a posto la mascella massaggiandosela. Noemi ha paura di vedere la condizione del suo occhio ma decide coraggiosa di farlo. Si alza e si avvia verso il lido mentre Silvano, ripreso il suo solito colore grazie al telefonino, le fa un cenno con la mano e un occhiolino. «Che imbecille! Proprio adesso mi fai un occhiolino?», pensa salendo le scale del lido tastandosi l’occhio offeso con le dita. Su al lido la accoglie la barista occhialuta: «Oddio, Noemi! Ma che ti è successo! Ci hai fatto prendere un colpo! Vieni siediti!». La accomoda ad un tavolino mentre lei le improvvisa una versione distorta: «Ho avuto un grampio mentre ero al largo…», «Un crampo!» la corregge la barista istintivamente ma ansiosa, aspettando a bocca ed occhi aperti il resto della storia, «si…si, un crampo… » prosegue Noemi «Poi quel signore con i baffi si è sentito male, ho cercato di salvarlo…». Quando la barista, commossa, le dice che va a prepararle un tè caldo, lei le chiede se per caso ha uno specchietto da trousse. Dopo un po’ la barista torna con il tè, le porge lo specchietto, le fa una carezza in testa e poi ritorna a servire al bancone. Noemi beve un sorso, poi si guarda l’occhio. Per fortuna non si vede quasi niente, tira un sospiro di sollievo e si gira per guardare l’ora nell’orologio appeso dietro al bancone. Torna a voltarsi e in piedi davanti a lei c’è Davide. Lei non può fare a meno di notare che il suo sguardo deve metterlo a disagio, tradisce ancora parte di quei tre secondi. È suo, ne è sicura. «Come va? Io sono Davide, non abbiamo avuto il tempo di presentarci, si può ben dire…». «Io sono Noemi! Sto un po’ meglio… mi fa un po’ male l’occhio e mi gira ancora la testa… Siediti! Non ti ho neanche ringraziato… Posso offrirti qualcosa?», la volpe non perde l’occasione. «Non preoccuparti…» le fa lui restando in piedi, «… per fortuna passavo di lì. Senti, credo che per la tua lezione di windsurf sia meglio rimandare, visto quello che hai passato…». «No! No! Sono solo le quattro, mi sento già meglio e poi ho proprio bisogno di distrarmi.». «Sei proprio sicura? Guarda che possiamo cominciare domani se vuoi…». Lei insiste e lui infine cede salutandola e dandole appuntamento alle cinque al club. Noemi avverte qualcosa di strano nel suo sguardo anche nell’atto di congedarsi. «Ce l’ho in pugno!», si urla dentro più che soddisfatta. Alle diciassette e cinque minuti, mai essere puntuali agli appuntamenti, Noemi avanza con le stesse movenze di quando si espone sulle passerelle verso Davide che, aspettandola, sta trafficando vicino ad una tavola da windsurf a pochi metri dalla riva. Lui, in ginocchio alle prese con la tavola, si volta: «Ciao! Allora? Ti sei ripresa?», «Si! Sto benissimo e non vedo l’ora di cominciare!». «Bene! Allora siediti. La prima lezione, come puoi ben immaginare, sarà soprattutto teorica. Prima di iniziare però, devo farti qualche domanda di routine. Diciamo che mi serve per capire il tuo “approccio” con il mare.», «Va bene! Spara! Sono pronta!», «Allora Noemi, da quanto ho potuto capire nella confusione dell’incidente di prima, tu hai avuto un crampo mentre stavi nuotando, ti succede spesso? Scusa se te lo chiedo, ma il windsurf è una disciplina molto faticosa, richiede un grosso dispendio di energie e perdita di sali minerali, quindi, se soffri spesso di crampi non è consigliabile, inoltre vorrei sapere se hai problemi con l’acqua alta, insomma, sei una buona nuotatrice?». Lei più che disinvolta: «No guarda, il crampo mi era già bello che passato, è stato quel signore con i baffi che si è sentito male ed io ho cercato anche di salvarlo ma lui era così agitato che stava facendo affogare anche me…non so che gli è preso. Io so nuotare benissimo ed è rarissimo che mi venga un crampo e comunque so come gestirlo. Non ti preoccupare. Ma chi ti ha detto queste cose?». «Il signor Gerardo, il signore con i baffi, mi ha detto che ti ha sentito strillare che avevi un crampo e ha cercato di riportarti a riva…. », «No guarda! Io stavo benissimo e ho cercato anche di dirlo ma quello mi sa che è un po’ sordo perché ha insistito e per poco non affogavamo tutti e due!». Davide la guarda un attimo perplesso, poi prosegue: «Va bene Noemi, se è così allora possiamo continuare la nostra prima lezione. Tu sai che esistono dei venti che ….», mentre lui parla di venti, si alza una leggera brezza e lei, che si trova sottovento, è invasa per un attimo dall’odore della sua pelle misto a quello della salsedine. Questa fragranza le scatena un effetto narcotico imprevisto e mentre lui continua a parlarle di venti, lei è praticamente catatonica con lo sguardo fisso sulle sue labbra. Per fortuna Davide comincia a disegnare sulla sabbia e Noemi abbassa lo sguardo sulle sue mani ripensando per un attimo al filo di saliva di Silvano mentre dorme. Terrorizzata che ciò non possa accadere anche a lei in quel momento, chiude subito la bocca semiaperta e cerca disperatamente di concentrarsi sui segni che lui fa sulla sabbia. Intanto la brezza continua a soffiarle nelle narici quell’aroma sconvolgente e per un attimo si rende conto che la lingua vorrebbe uscire ed allungarsi come una serpe per assaggiargli la pelle della mano che continua con l’indice a solcare la sabbia. Ormai guarda i disegni grezzi di Davide come fossero un opera astratta estemporanea. La sua pelle. È irresistibile quell’odore, le scatena il finimondo. «Com’è possibile? Non riesco a controllarmi? Io?», riesce a domandarsi in un barlume di ripresa coscienza e in un attimo in cui la brezza cala. La brezza si rialza. Gli salterebbe addosso all’istante anche se fosse l’ultimo dei pezzenti viventi sul pianeta. Ormai Noemi non pensa più alle barche a vela, allo Champagne, alle serate di gala. Si sente spaventata e soprattutto stracotta di lui: «Quindi, come ti spiegavo prima., quando il vento ti viene da est, l’inclinazione del boma… Noemi! Ma ti senti bene?». Lei risale a fatica dal trans: «Eh? Si! Si! La pruoma…». «Vedo che fai fatica a seguire, deve essere lo shock dell’incidente di prima. Ascolta Noemi, io credo che sia meglio che torni dal tuo ragazzo e che ti riposi. Non ti preoccupare, dirò al club di non farti pagare questa lezione, vedo proprio nei tuoi occhi che sei esausta. Possiamo cominciare tranquillamente domani, se ti va. Sei d’accordo?». Noemi che essendo ancora sottovento ha decifrato a fatica il messaggio di Davide, abbassa lo sguardo, si riscuote con un tremito e decide che forse è meglio battere in ritirata, si sente troppo vulnerabile e questo le crea una sensazione di perdita di dominio a cui non è per niente abituata. «Si. Hai proprio ragione, credevo di farcela ma invece mi sbagliavo. Non mi sento tanto bene, forse è meglio rimandare a domani.». Davide si alza e la aiuta ad alzarsi. Noemi, ancora un po’ inebetita, alza lo sguardo ai suoi occhi. Si fissano per qualche secondo. Davide ha quello sguardo. Quello dei tre secondi di suo papà ma con il lieto fine. Non è più sottovento e liberata dall’incantesimo prova l’estrema mossa: «So che tu sei anche un istruttore di vela…», gli fa volpina guardandolo con gli occhi di gatta, «si.» le risponde Davide tranquillo, «si può ben dire che la barca a vela è la mia vita, in un certo senso…», Noemi sognante espandendo gli airbag: «Ohhhh…Davvero? Non sai quanto amo la vela. Il mio sogno fin da bambina è sempre stato quello di andare in barca a vela fino a Madrid. Sogno di essere sdraiata dondolando sulla barca guardando la costa al tramonto…». «Madrid? Purtroppo credo che questo rimarrà solo un sogno per te, a meno che non affitti un rimorchio e trasporti la barca fino lì. Madrid è a duecentocinquanta chilometri dal mare!», termina ridendo, «Noemi, vedo proprio che sei sconvolta. Forse volevi dire Barcellona? Dai, vai a casa e riposati. Domani è un altro giorno.». Noemi rossa come una anguria aperta: «Eh? Si! È vero! Barcellona, che stupida… Hai ragione! Sto proprio male! Meglio che torno a casa.». Si salutano. Si sente un verme e vorrebbe andar via come una talpa sotto la sabbia, però nota ancora quella strana espressione nell’ultimo sguardo di Davide e, anche se sconfitta, sente che le rimane uno spiraglio di possibilità. «Lo so! Sono sicura che posso farcela! Che stupida! Si, forse è colpa dell’incidente. È colpa di quel baffoni ficcanaso! Se non fosse stato per lui a quest’ora…», rimugina mentre ritorna da Silvano. Quella sera hanno un appuntamento al porticciolo. Una cena sullo yacht del principale fornitore dell’azienda familiare di Silvano. Alle nove Silvano e Noemi camminano sul molo del porticciolo fiancheggiando le barche all’attracco da un lato e dall’altro una fila di coloratissime bancarelle, piene di zuccheri caramellati e filati. Quella dolce fragranza fluttua nell’aria come tentando di sopraffare l’odore di alghe morte che risale dal mare del porticciolo. Noemi: «Che puzza!». È la sera dell’annuale ricorrenza del Santo patrono, ed il piccolo centro marino è addobbato a festa fino ad invadere buona parte del porto. Finite le bancarelle, si ritrovano a camminare nella luce che inizia ad essere crepuscolare verso lo yacht, anch’esso illuminato a festa, attraccato verso la fine del molo. Silvano è nervoso. Pur sentendosi a proprio agio nel completo sabbia per le grandi occasioni, vestendosi in fretta ed in preda al telefonino, ha messo di nuovo per sbaglio quel maledetto paio di mutande strette del quale non realizza per quale motivo non riesca mai a liberarsene. Riappaiono sempre nel suo guardaroba e nella fretta finiscono sempre per fregarlo all’ultimo momento. Cammina con un andatura che fa pensare alla mummia di Robocop. È indeciso tra il tornare al motel per liberarsi di quel cilicio ma tardare a quell’importante appuntamento voluto e organizzatogli dall’ansiosissimo papà, ed il cercare di dimenticarsi le sue parti basse per concentrarsi sugli affari. Pensando anche, in favore di questa seconda ipotesi, che questa condizione di ristrettezza possa renderlo più attento e decisivo nella diplomazia pro-azienda familiare che gli si prospetta nel corso della serata. Noemi, per l’occasione, ha messo un completino celeste iper-attillato con minigonna e airbag compressi a mille atmosfere abbinato a tacchi a spillo da undici centimetri. Prima di mettere quelle scarpe, purtroppo, non poteva sapere che l’accesso allo yacht prevede una scaletta a pioli di due metri e mezzo. Poiché alcuni ospiti già circolano a poppa curiosando e discutendo con gli aperitivi in mano, Noemi, sentendosi osservata, si sente obbligata a rinunciare all’idea di sfilarsi i trampoli prima di attraversare l’insidiosa scaletta e attende che Silvano imbocchi per primo in modo da poterla aiutare più facilmente, tenendola per mano, a superare quella dozzina di troppo strette tavolette. Silvano invece, da buon cavaliere già fin troppo osservato dagli ospiti astanti, insiste cerimonioso per farla attraversare per prima nonostante i pressanti e nervosi inviti disinvoltamente subliminali di Noemi che, prevedendo la difficoltà dell’operazione, preferirebbe invece che fosse lui a salire per primo. Infine desiste dal convincerlo e parte concentrata e convinta di dovercela fare affrontando i primi quattro gradini con la dovuta grazia, sebbene un po’ ostentata e nonostante il fiato sospeso. I problemi cominciano appena i centoventicinque chili di Silvano la seguono. La passerella comincia ad oscillare. Noemi, che ora è intenta ad affrontare il sesto gradino, non riesce a centrarlo bene con lo spillo e precipita all’indietro. Silvano a quel punto, costretto a lasciare i corrimano per sostenerla, la sorregge prontamente ma cercando di mantenere l’equilibrio, comincia suo malgrado a far oscillare la scaletta con un movimento del tipo hula-hop. La reazione a poppa è variegata. C’è chi comincia come fosse ipnotizzato da quella scena a ripetere gli “Ohhh! Ohhhhh!!!” dei due sventurati e chi invece si dà da fare a ripetere “Fate qualcosa! Fate qualcosa!”. Entrambi i gruppi sempre con l’aperitivo in mano più o meno agitato. Per fortuna, arriva di corsa un signore attempato ma ancora abbastanza tonico che si aggrappa ad una sbarra e si protende verso la scaletta fino ad afferrare la mano di Noemi che ha perso il contegno ormai in preda al panico, più che per la probabilità vieppiù maggiore di finire in acqua, per la figura che ne conseguirebbe. L’operazione di salvataggio riesce. Noemi sale a bordo rossa come una chioccia aggredita durante la cova. Farfugliando qualcosa che somiglia a un ringraziamento nei confronti dell’anziano e pronto signore, guarda a terra chiedendo «dov’è la tualet?» cercando di sparire alla vista e all’applauso degli ospiti quanto prima possibile per recuperare la sua perduta dignità e soprattutto per massacrare Silvano il quale è ancora sbuffante alle prese con la scaletta. Mentre il valoroso signore aiuta anche lui a salire a bordo, Noemi ancora rossa di rabbia già si è avviata verso prua con lo scopo di trovare un posto abbastanza isolato per assalire Silvano. Ripensa alla figuraccia ed è depressa al pensiero che per la seconda volta nella giornata un signore anziano le abbia offerto il suo aiuto. «Perché non c’era Davide al suo posto?», si domanda sull’orlo di piangere anche se non lo farà mai per via del trucco. «Possibile che attiro solo vecchiacci?» quasi non fa in tempo a chiedersi perché, che dallo scambio di saluti e battute tra Silvano ed il “vecchiaccio” capisce che si tratta proprio del proprietario della barca il quale ora la sta guardando con un ampio sorriso e le viene incontro insieme a Silvano tenendolo a braccetto. Dentro Noemi, in un attimo, si riattiva automatica la calcolatrice: yacht lussuoso uguale tanti soldi, tanti soldi uguale vecchiaccio, vecchiaccio uguale…: «Oh! Non so proprio come ringraziarla! Mi ha proprio salvata all’ultimo momento! Se non era per lei a quest’ora! Ma che forza che ha! Mi ha tirata su come un ruscello!!!». Renzo il vecchiaccio, che è un ricco imprenditore sulla settantina che conosce bene la vita, robusto, il viso rubicondo incorniciato nella barba brizzolata e un cappello da capitano, prima di reagire a quelle evidenti moine fa una pausa abbastanza imbarazzante guardando fisso Noemi con aria curiosa, infine scoppia in una fragorosa risata e le fa: «Un ruscello? Signorina! Aspiro almeno ad essere un torrente in piena nonostante l’età! Voleva dire un “fuscello”! Si vede che è ancora un po’ agitata.» Dice voltandole lo sguardo e dedicandole la stessa attenzione di un segugio per una tana di volpe abbandonata. Dopo aver guardato seriamente Silvano per un attimo con un esplicito quanto enigmatico sopracciglio alzato, gli sorride e stringendogli la testa con un braccio gli dà un pizzicotto sulla guancia. «Voi giovani!» continua, «…quanta strada avete ancora davanti! Allora, vi sposate?». Silvano balbettante: «Ci…ci stiamo pensando…». Renzo lasciandogli la testa: «Io e tuo padre Silvà! Quante ne abbiamo combinate! Ci conosciamo da quando eravamo piccoli così! E tua madre? Una gran donna! Devi ascoltarla Silvà, tua madre ha una grande saggezza! Adesso andate, visitate la barca e fate come a casa vostra. Signorina…Noemi? Posso darle del tu? Ho sentito che cercavi la toilette, è da quella parte. Vai Silvà, accompagnala, fai il bravo cavaliere. Ci vediamo dopo!». Entrano nel bagno. Noemi è inviperita. Sia per il muro che ha trovato in Renzo che per la figuraccia che ha fatto per colpa di Silvano: «Sei un cretino! Non hai visto che volevo che passassi per primo? Non ti sei accorto delle scarpe? Ah! Già! Ma tu non ti accorgi di niente! Ti svegli solo quando suona quel cavolo di cellulare! Sei un morto ambulante! Mi hai proprio rotto…». Silvano, che è visibilmente oppresso dal paio di mutande traditrici ed in più ha carpito parte del messaggio muto di Renzo poco prima, è rosso e sta per fare qualcosa che fino ad ora non ha mai osato fare, urlare: «Smettila!!! Basta! Stai sempre a lamentarti mentre io mi faccio in quattro per non farti mancare mai niente! E le scarpe! E i vestiti! E le borsette! E l’orologio! E adesso pure il windsurf!!! E poi sono stufo di come fai la smancerosa con gli altri uomini!!! Adesso pure con Renzo che ha settant’anni e potrebbe essere tuo nonno!!! Allora è vero che ha ragione mia mamma!!! È vero che sei una…», inchioda sull’articolo indeterminativo come rendendosi conto di essere arrivato ad un limite che non riuscirà mai a superare, anche perché vede montare sul viso di Noemi un’espressione che gli fa paura: «Sei una?», gli risponde lei sottovoce, la faccia tirata e inespressiva. Lui comincia ad aver paura. «Sei una?», continua lei tra i denti incrementando impercettibilmente il volume e con un tic involontario delle sopracciglia. Lui adesso è terrorizzato: «Ascolta… amore…». «Sei una???» prosegue imperterrita e aumentando ancora il volume. Adesso, con una palpebra sfarfallante, avanza molto lentamente verso di lui che ormai è alle corde, bianco, sudato ed ansimante. Quel pesantissimo silenzio di ghiaccio, però, viene interrotto improvvisamente. Accanto, nella cucina che è separata dal bagno solo da una sottile paretina, Said e Nabil, due cuochi marocchini assunti da Renzo in occasione di quella cena, stanno fumando pacificamente un aperitivo mentre cucinano e Nabil, che dei due è il più spiritoso, non riesce a cedere alla tentazione di rispondere a quella insistente domanda proveniente dalla stanza accanto. «Zooculah?», dice a voce bassa con un accento talmente esilarante che fa sbruffare Said in una risata educatamente trattenuta nel volume ma convulsiva ed altamente contagiosa. I due non immaginano che la paretina divisoria è talmente sottile che dall’altra parte i due litiganti stanno ascoltando perfettamente tutto nonostante le loro dovute precauzioni. Silvano reagisce tirando su le sopracciglia e riabbassandole subito senza riuscire a trattenere un accenno di risatina: «Ehh…». Per Noemi invece l’effetto è opposto: le si allargano le narici, sgrana due occhi rossi e fiammanti, quindi parte come uno zombie all’assalto di Silvano il quale subito e istintivamente si volta verso la porta per cercare di aprirla e scappare, vedendola avanzare vulcanica verso lui. Non fa in tempo ad aprirla, Livida dalla rabbia accentuata da quell’ultimo scherno, al grido di «BASTARDO!!!» gli sferra un calcio nel di dietro rimanendo scalza da un piede e lasciando la scarpa appuntita incastrata tra le natiche e l’inguine di Silvano il quale emette un rantolio soffocato. Rimane un attimo attaccato alla maniglia della porta come folgorato da quella scarpetta di cenerentola rosa dal lungo tacco che ora, penzolandogli, sembra la coda di un maiale che ha preso la scossa elettrica. L’unico palliativo a quell’immenso dolore dicotiledone lo scoprirà più tardi, rendendosi conto che gli elastici delle mutande traditrici hanno finalmente ceduto. Suona il suo cellulare, lei si lascia cascare a terra con la testa tra le mani, lui si sfila tremolante la scarpa, la lascia cadere ed esce rantolante dal bagno rispondendo al telefono con un filo di voce rauca : «Baaaapà..? Nooo…ddi righiamo..». Esce chiudendosi la porta alle spalle lasciandola da sola a singhiozzare di rabbia seduta per terra, senza una scarpa e con il trucco degli occhi ormai sciolto che le riga nero e verticale le due metà del viso. Dall’altro lato in cucina i due cuochi continuano piano a sghignazzare ma ormai, più che altro, per l’effetto del loro aerobico aperitivo. Noemi, presa da un nuovo estremo raptus di rabbia, afferra la scarpa reduce dall’incontro retro-ravvicinato con Silvano e comincia a colpire la paretina con il tacco al grido di: «CAFONI!!!CAFONI!!!CAFO…», proseguirebbe all’infinito ma viene frenata dal bussare alla porta e dalla voce preoccupata di Renzo dall’altra parte: «Noemi? Tutto a posto?». «Si!!! Si!!! Scusa! Sono al telefono!». Esce dal bagno un quarto d’ora dopo. Sia per la vergogna di farsi vedere subito pensando che oltre alla figuraccia della scaletta tutti certamente avranno sentito la sua bagarre con Silvano, sia per rifarsi di nuovo il trucco.  Quando apre la porta sente le voci degli ospiti, risate, rumori di stoviglie e posate venire da prua, stanno cenando. Non se la sente di farsi vedere e poi non vuole vedere Silvano. Le ci vuole ancora un po’. Quindi si sposta senza far rumore a poppa, che è deserta e si accende una sigaretta. Fumando getta un occhio distratto sulle altre barche ormeggiate. Improvvisamente il suo sguardo è attirato da una silhouette dall’aria familiare che si muove su una barca a vela attraccata tre barche dopo lo yacht. «Davide!». Si ricorda che la barista le aveva detto che viveva su una barca lì al porticciolo. Non ci pensa due volte. Si sfila rapida le scarpe, discende la scaletta dello yacht e si avvia decisa verso la barca di Davide. Mentre cammina progetta a puntino l’entrata in scena. Arrivata quasi alla meta, rallenta il passo, tira fuori il telefonino e comincia a passeggiare davanti alla barca di Davide fingendo una tranquilla conversazione telefonica accompagnata da frequenti risatine. Sempre tenendo sotto controllo la posizione di Davide con la coda dell’occhio, complice dell’oscurità, aspetta di vederlo a poppa per avvicinarsi ed inscenare l’incontro casuale. Davide, che ha cenato ed ora è preso nelle sue faccende, sbuca per un attimo a poppa. Lei non perde l’attimo e, sempre facendo finta di telefonare, si avvicina alzando la voce per cercare di farsi notare. Lui alle prese con delle funi, si volta incuriosito da quella presenza solitaria vicino alla sua barca, la nota e gli fa un cenno con la mano. Noemi inscena grande sorpresa e chiude subito il telefonino fingendo di salutare animatamente l’inesistente interlocutore. «Ciao!!! Cosa ci fai tu qui!» esterna la volpe con aria più che sorpresa. «Beh… Ci abito…». Risponde Davide con un sorriso e replica amichevole: «Tu che ci fai qui. Questa parte del molo è quasi al buio, non ti piace la festa del patrono?». «Si…No…Veramente ero a cena su quel draghetto laggiù, vedi? Quello grande tutto illuminato. Poi mi ha chiamato un amico che non sentivo da tanto e.. sai, quando parlo al telefono certe volte comincio a camminare e non mi rendo conto di dove vado a finire… ». «Eri da Renzo? Lo conosco bene. Gli do lezioni di vela e andiamo a pescare spesso insieme. Mi fa la corte perché vorrebbe che gli vendessi la mia barca. Quel vecchio lupo di mare traffichino… Beh! Un traghetto mi sembra un po’ esagerato, quello è uno yacht e io faccio arrabbiare Renzo perché gli dico sempre che con il vento, se impari a conoscerlo, puoi arrivare dove ti pare e soprattutto: mantenendoti in forma e senza inquinare.». «La tua barca è….è bellissima!!!», la volpe ha già intuito il tallone di Achille e prepara l’attacco. Infatti lui si gira un attimo ad ammirarla orgoglioso e poi, come grato per quel apprezzamento le fa: «Vuoi salire?». Noemi non aspettava altro, però è abbastanza lucida per farsi desiderare: «Oh! Mi piacerebbe… non sai quanto! Però dovrei tornare alla cena. Sai, non è corretto scomparire così quando si è invitati…». Lui però la prende in contropiede: «Hai ragione! Che stupido. Renzo poi ci tiene così tanto ai suoi ospiti…Credo che sia meglio che tu vada. Allora… a domani alle cinque!». Si rende conto che ha fallato la mossa ma già sa come riscattarsi, fa una pausa fissando gli occhi sull’albero maestro, poi li abbassa su di lui: «Però, chissà quando mi ricapiterà di salire su una barca così bella… Magari un attimo mi piacerebbe salire, giusto per sentire la sensazione. Ti ho detto che adoro le barche a vela. Mi stai tentando!». Si avvicina alla scaletta. «Va bene! Ti consiglio, però, di toglierti quelle scarpe! Guarda che questa scaletta non è agevole come quella di Renzo.». «Oh! Figurati! Sai, io faccio le sfilate, sono abituata a camminare con i tacchi dappertutto.» Imbocca la scaletta che ha i gradini effettivamente più stretti di quelli della scaletta di Renzo e inoltre sono molto poco illuminati ma ormai ha lanciato la sfida e parte decisa e fiera nella sua sfilata. A metà percorso, il suo andamento sinuoso e silenzioso è rotto da due “STLAC! SCLAT!” seguiti da due “Pluf! Plof!”. Noemi si abbassa di undici centimetri sulla scaletta mentre un piccolo branco di pescetti incuriosito già gira intorno luccicante ai due tacchi rosa galleggianti in contrasto con l’acqua scura del porticciolo. «NOOO!!! Le mie scarpe!!!» lamenta reggendosi sulle corde laterali della scaletta oscillante. Davide pronto: «Mi dispiace! Ce la fai?». Lei, furiosa dentro, ma decisa ad andare in fondo accenna un si disinvolto con la testa. Ma le scarpe sono lisce e senza i tacchi mancano di qualsiasi presa. Infatti scivola e si ritrova sospesa a cavallo di un gradino della scaletta con un piolo giusto al centro dell’inguine che la costringe a chiedere aiuto. Ma non ce n’è bisogno perché Davide è già sopra di lei, la solleva con un braccio e la porta di peso sulla barca. Sentendosi presa con quella forza e quella delicatezza, aspirando di nuovo l’aroma per irresistibile della pelle di Davide, gli appoggia la testa sulla spalla e quando sono sulla barca e lui sta per metterla giù, comincia a baciargli automaticamente e avidamente il collo come posseduta. «Ma che fai!» le dice lui staccandola da se bruscamente. Noemi rimane a guardarlo con l’espressione drogata. «Ma che ti succede!» le chiede Davide esterrefatto. Lei come in trans: «So che ti piaccio! Ho notato come mi guardi! Perché adesso mi rifiuti? Vuoi farmi soffrire? Anche tu? Tutto il mondo ha deciso di farmi soffrire?», si dispera finché non scoppia in pianti e singhiozzi. Lui immobile la osserva per un po’ con aria seria e pensierosa. Poi le prende una mano: «Dai, vieni.». La porta a prua e la fa sedere ad un piccolo tavolino di legno tondo. Poi fa il giro e le si siede davanti. «Noemi. Smettila di piangere. Ti prego. È vero, ti ho guardato e ti guardo in un modo strano. Non lo faccio apposta., devi credermi. Lo vuoi proprio sapere perché ti guardo in questo modo?». Lei ancora singhiozzante accenna un sì. Lui fa una pausa guardandola intensamente, poi si alza e ritorna poco dopo con una bottiglia, due bicchierini ed una piccola agenda consumata e foderata di cuoio in mano. «Ti piace la grappa?» le dice con la bottiglia in mano pronto per versare: «Non lo so… ma si.. versa pure, ho bisogno di qualcosa di forte.». Davide riempie i bicchierini, mandano giù un sorso tutti e due. Poi stanno per un po’ in silenzio. Nella penombra gli arrivano i rumori e i suoni della festa e, di tanto in tanto, anche qualche risata e schiamazzo dallo yacht di Renzo. Mandano giù un altro bicchierino. Lui si carica una pipa e la accende, lei si accende una sigaretta, fa un profondo tiro e poi lo guarda finalmente in viso. Davide fa un tiro dalla pipa, poi prende una piccola lanterna da terra, la accende e la poggia sul tavolino. Poi tira fuori una piccola agenda, la apre, la sfoglia fino ad un certo punto e rimane per un po’ a studiarla, alza lo sguardo e gliela passa aperta, fissandole serio il viso. Noemi ha un sussulto. In quelle due pagine ci sono incollate due foto. «Ma questa sono io! No… Sembro io! Oddio! Ma questa chi è?», chiede stupefatta. In effetti la ragazza nelle due foto le somiglia in modo impressionante. «Quella ragazza è mia figlia… Era mia figlia. E quella che hai in mano è la sua agenda, il suo diario. Lo teneva sempre con se.». «Ma che le è successo? Quando?». «Quanti anni hai?». «Ventiquattro, li compio tra poco.». «Lei adesso avrebbe la tua stessa età. Se né andata tre anni fa. Era a Parigi, conosci il progetto Erasmus? Stava studiando scienze della comunicazione, era riuscita a vincere una borsa di studio e condivideva un appartamento con altri studenti e Karim, il suo ragazzo. Un sabato sera di fine estate stavano tornando tutti insieme a casa dopo aver girato diversi locali e lei e Karim giocavano a rincorrersi con due pistole ad acqua. Lei ad un certo punto ha cominciato a correre all’indietro senza rendersi conto di andare a finire sulla strada. Karim e gli altri hanno cercato di avvertirla ma un attimo dopo un furgone l’ha presa in pieno e l’ha scaraventata sul marciapiede, davanti ai loro piedi. Karim ancora non si è ripreso del tutto, ci sentiamo spesso.» Davide prende un grande respiro e rimane silenzioso. Lei continua a guardare quelle foto, poi apre la prima pagina: «Denise….che bel nome…mi è sempre piaciuto.». Le cade una lacrima. Tira un sospiro e guarda Davide che ha gli occhi lucidi. «E sua madre? Come l’ha presa? Tua moglie voglio dire…», gli chiede. Lui si riaccende la pipa, fa un tiro gettando gli occhi verso il mare calmo, il riflesso bianco della luna sul mare entra fino all’interno del porticciolo, sopraffatto regolarmente e a tratti da quello verde della luce del faro: «È come se insieme a Denise, sia morta anche una parte di lei. L’abbiamo presa allo stesso modo. Questa cosa è stata così forte per me e mia moglie che abbiamo deciso di separarci. Non abbiamo deciso per quanto tempo ma abbiamo sentito subito entrambi l’esigenza di farlo. Stando insieme non facevamo che ricordare, soffrire e piangere la mancanza di Denise all’infinito. Questo ci stava togliendo la forza di vivere. Ci amiamo ancora ma ci vediamo poco, al massimo due volte l’anno e per pochi giorni. Lei si chiama Lyudmila, è russa, l’ho conosciuta a Valdivostok durante un viaggio, avevamo tutti e due solo vent’anni. Fu un colpo di fulmine, ci sposammo subito e appena due anni dopo lei era incinta di Denise. Fa la corrispondente all’estero per una TV nazionale. Le piace l’avventura e viaggiare. Sotto questo aspetto siamo uguali. Denise in questo senso ci aveva reso più stanziali che nomadi. I momenti più belli della nostra vita li abbiamo vissuti quando siamo stati uniti grazie a lei, al fatto che dovevamo essere i suoi genitori ed aiutarla a crescere, tutti e tre insieme. Anche per Lyudmila è così. Ed è per questo che ora facciamo fatica a stare insieme per più di una settimana. È come se dopo un po’ ci mancasse l’aria.». «Perché non fate un altro figlio?». «Ci abbiamo pensato. Siamo anche arrivati al punto di farlo ma poi ci siamo fermati. Sai…non so come spiegartelo… Ci sentiamo ancora addosso una specie di cappa, una sorta di nuvola minacciosa che io spero che passi il più presto possibile, prima di non essere più in grado di farlo e di avere abbastanza energie per tirarlo su come si deve, un altro figlio.». Noemi, ancora fissando il viso di Denise che le assomiglia davvero, a parte quella profonda luminosità nello sguardo che ha sempre odiato, forse anche un po’ invidiato e che ha sempre sentito come “giudicante” nelle altre persone in cui l’ha notata durante la sua vita, comincia a pensare a suo padre e a sua madre. Vede sua madre che a quell’ora sarà, come al solito, sdraiata sul divano a guardare la TV dopo una giornata di lavoro come commessa al supermercato e dopo i lavori dentro casa: ogni tanto si addormenta, poi si risveglia. Tante volte, quando ancora viveva a casa con lei, si era chiesta se per caso sua mamma nei momenti in cui si assopiva davanti allo schermo, non stesse in realtà sognando di guardare la televisione e quindi non accorgersi nemmeno di addormentarsi, tanto la sua espressione era sempre uguale: con gli occhi chiusi, aperti o semiaperti. Ora immagina suo padre, sopra una nave, che in una breve pausa fuma una sigaretta guardando con odio il mare, galera della sua vita. Con il viso sporco di grasso sputarci dentro e ritornare al lavoro, con un calendario hard dimenticato e di chissà quanti anni vecchio, appeso da qualche parte, unico punto di colore nel bianco e nero della sala macchine. Rivede Silvano, con il cellulare all’orecchio e vede la madre di lui che le sussurra “Zooculah!”, mentre protegge il figlio complice nascosto dietro se. Scoppia in un singhiozzo. Davide le sfila delicatamente l’agenda dalle mani: «Noemi. Guardami. Cos’hai?». Lei lo guarda per un attimo con l’espressione ferita ma orgogliosa, prende la bottiglia di grappa e si serve da sola. Poi, dopo aver buttato giù un altro bicchierino, si sbottona cominciando a descrivere il suo vissuto, la sua situazione famigliare e la sua situazione attuale. Lui fa fatica a capirla talmente è caotica e logorroica. Sta ritirando la bottiglia di grappa ma lei, continuando a sfogarsi, gliela strappa dalle mani e beve una gran sorsata direttamente dalla bottiglia. Lui gliela toglie e la mette via. Noemi ora è sbronza. Alterna momenti di ebrezza a singhiozzi di pianto convulso. Le viene da vomitare. Fa in tempo a sporgersi dalla barca con il mondo che le centrifuga intorno alla testa e a rigettare l’alcool che ha bevuto nell’acqua scura del porticciolo. Dopo che ha finito, lui la rimette a sedere, le fa una carezza in testa dicendole che va in cucina a preparare un caffè. Dalla piazzetta del paese, a qualche centinaio di metri, arrivano le note del gruppo di liscio che intrattiene la serata di festa e Noemi, sorseggiando il suo caffè lo guarda: «Sei sicuro che non ti piaccio neanche un po’? Io mi sento così attratta da te, credo sia una questione di pelle.». Lui le sorride, appoggia la tazza di caffè sul tavolino si appoggia allo schienale della sedia e incrocia le mani sull’addome: «Noemi. Hai parlato di pelle. Vedi la mia pelle? È una pelle di quasi cinquanta anni. Potrei anche capire che una ragazza ventenne sia attratta da qualcuno che potrebbe esserle padre, anche se ti dico dal cuore che proprio non lo capisco. Ritornando alla pelle, vedi, io mi sento attratto da una pelle più simile alla mia, mi sento più a mio agio, deve essere una pelle almeno similmente consumata quanto la mia, sono affascinato dalle pelli consumate e provate dalla vita, magari anche con qualche cicatrice, come la mia Lyudmila, che con il lavoro che fa, si è trovata spesso in situazioni difficili. Non biasimo le scelte degli altri ma io sono fatto così. Sono una quercia adulta e voglio vicino una quercia che abbia più o meno la mia stessa età e più o meno gli stessi tagli e le stesse sbucciature inferitele dalla vita. È questo quello che mi attrae in una donna: la sua esperienza di vita. Tu sei giovane, sei libera di fare ciò che vuoi. Hai tutta la vita davanti ma se ti va posso dirti come la penso, visto che mi hai vomitato tutto il tuo passato in un quarto d’ora prima di rigettare la mia ottima grappa in mare.». «Si! Certo che mi interessa sapere cosa pensi di me. Sembri una persona molto sicura e sento che sei anche stato un padre eccezionale.». Gli occhi di Davide si lucidano di nuovo, prende l’agenda di Denise dal tavolo, la chiude e vi poggia le mani sopra: «Ascolta, sei una ragazza sveglia e questo si vede ma le tue capacità e le tue potenzialità devi imparare a concentrarle verso altri traguardi ed altre direzioni. Se fossi in te ricomincerei a studiare, non è mai tardi, o comunque proverei a dedicarmi anima e cuore ad una attività nella quale sento che ho le capacità per crescere e crearmi una base solida sotto i piedi, senza l’aiuto di nessuno e senza gli apprezzamenti di nessuno.». Noemi durante la pausa di Davide intento a riaccendere la pipa ripensa al piacere che prova nel piluccare i punti neri e a come era brava, da piccola, a creare i vestitini e a truccare le bambole. Poi ripensa a Silvano: «E cosa pensi di Silvano? Ti ho parlato di lui.». «Non lo conosco e non mi sento di dare un giudizio su una persona senza averla prima conosciuta e frequentata ed anche con questi presupposti è sempre difficile. Noi esseri umani siamo complessi ed anche imprevedibili. Posso dirti altre cose. Stai lontana da chi ti da l’impressione di essere interessato solo al tuo corpo ed anche da quelli che parlano troppo, anche se possono sembrare affascinanti per questo, valuta sempre in modo attento e distaccato, vai al succo. Quando conosci un uomo concentra molto l’attenzione sulle sue mani. Un uomo che sa fare lavori in casa, dal cambiare un rubinetto a saper usare un giravite o una pinza ha le mani diverse da uno che non lo sa o non lo vuole fare. Ha mani più grandi, più forti ed anche qualche graffietto e qualche callo se guardi bene. Quello, in una buona percentuale, è un uomo che ama occuparsi del nido, più responsabile e quindi più affidabile. È come al supermercato, non prendere la frutta che ha una pelle perfetta, vuol dire che è stata protetta dai veleni. Se scegli quella meno bella, con qualche segno e magari con qualche insetto che ci gira intorno, sarai sicura che è più sana. Ritornando al nido: è importante anche che lui non ne sia troppo geloso, anche questo è un segnale negativo, la precisione e la manualità non devono mai essere ossessive, altrimenti vuol dire che nascondono problemi. Chi è troppo pignolo, spesso, è una persona che ha un grosso bisogno di aiuto e richiede tante energie da chi gli vive accanto.». Noemi scoppia a ridere: «Lo sai che anche mia mamma mi diceva sempre questo, sulla frutta e la verdura, quando mi mandava a fare la spesa? Non mi ha mai parlato dei ragazzi in questo modo però!». Ciò dicendo immagina le mani di Silvano: senza un graffio, non l’ha mai visto fare nessun lavoro in casa, anzi, ne ha fatti solo lei da quando sono insieme. Ora che immagina le sue mani riesce solo a vedere le dita grassocce volare sulla tastiera del cellulare. Poi ripensa alla manualità e alla pignoleria e vede il ritratto perfetto di suo padre. Non aveva mai pensato però che lui potesse aver bisogno di aiuto. Lo immagina di nuovo quel giorno in spiaggia, quando si era persa. «Mi piacerebbe aprire un centro estetico.», dice guardandosi le mani. «Fallo allora! Non pensare, fallo e basta! Noemi, la mia storia è molto semplice e, se non altro, posso garantirti che la mia vita, adesso, non dipende dal giudizio e dalla valutazione di nessuno. Vivo della mia esperienza. Sono stato fortunato, è vero. Ho avuto dei genitori fantastici che mi hanno aiutato al punto giusto e mi hanno saputo indicare la strada ma il resto l’ho fatto io. Questa barca l’ho costruita praticamente da solo con le mie mani e ne sono fiero. Penso questo: l’aiuto e il sostegno degli altri è una cosa bellissima, è una di quelle cose che ci permettono di andare avanti e di vivere una vita felice ma non bisogna esserne dipendenti, altrimenti si perdono l’orgoglio, lo stile e la dignità, che, in un certo senso, secondo me, rappresentano la maggiore parte del nostro ossigeno.». Dallo yacht di Renzo arrivano un applauso e delle risate. «Credo che adesso sia meglio che tu vada. Noemi, se vuoi vedermi…. quando vuoi. Ma lascia stare il windsurf, ascoltami.» le sorride Davide allungando una mano per scuoterle affettuosamente una spalla. «Si. D’accordo.». Lui sta per alzarsi e accompagnarla alla scaletta ma lei, che è già in i piedi, gli poggia una mano sulla spalla per trattenerlo dicendogli: «Orgoglio, stile e dignità! Me lo hai insegnato tu! Vado da sola.». Ciò detto si abbassa, gli da un bacio sulla guancia e si avvia a piedi nudi, con in mano le scarpe mutilate dei tacchi verso poppa. Appena scesa la scaletta si sente un botto e un attimo dopo il porticciolo è tutto illuminato di giallo per un istante. Cammina lungo il molo colorato dai fuochi d’artificio. Supera lo yacht di Renzo, dove non ha nessuna intenzione di salire e prosegue. Si sente confusa, fuori luogo. Come una volpe scuoiata ma ancora viva che vede di nascosto la sua pelliccia indossata da una signora andare via e sparire sulla scala mobile di un ipermercato. Sente ancora l’effetto dell’alcool a stomaco vuoto e anche se leggermente, barcolla con in testa tutti quegli strani pensieri. Cammina ancora a piedi nudi, con le scarpe in mano quando in un lampo verde, sotto i fuochi, vede seduto li vicino, su una panchina, il signor baffoni. Anche lui la vede e le fa un cenno con la mano. Come imbambolata, lo raggiunge saltellando e gli si siede accanto. «Signori’! E che ci fate da sola qui a quest’ora! Dov’è il vostro ragazzo?». Lei lo guarda sorridendo e rimane muta. I fuochi ora aumentano, i colori si susseguono veloci. Noemi e baffoni, l’una accanto all’altro, guardano lo spettacolo pirotecnico. Lei ha l’impressione di sentirlo singhiozzare: «Ma che fai! Piangi?». È così. Gerardo, il baffoni bianchi, sta piangendo. «Signori’… Io ho visto la guerra. Ero piccolo. Questi botti mi fanno ricordare quando stavamo sotto ai rifugi, tutti stretti di paura. Ci manca solo la sirena. Ogni volta che vedo i fuochi mi sembra come se mi vogliono dire: “Gerà, è questa la guerra! Quella che ti ricordi tu è stata solo un sogno brutto. Questa è la vera guerra!». Noemi guarda il suo vecchio viso rugoso, i baffi cambiare rapidi colore e una piccola lacrima dall’occhio, scendere e nascondervisi dentro veloce. Gli appoggia la testa sulla spalla e Gerardo, all’istante sorpreso, si lascia distendere in un largo sorriso, la stringe teneramente a se con un braccio intorno alle spalle finendo di guardare quegli ultimi fuochi d’artificio.

Orio e Aria

Scritto nel 2011.
Notte di fine estate in piena luna, la due cavalli penetra lenta e silenziosa la pineta che in morbida discesa va a barbeggiare la striscia bianca di sabbia che la separa dal mare, sopra i due cavalli Orio e Aria si passano la pipa, l’odore dei pini entra dai finestrini e miscela con quello dell’erba abbrustolita l’aria è calda Orio spegne motore e fari, la macchina continua la discesa verso mare nel buio, dondolando, cigolando, le gomme sottili cedono alle buche che fanno da mortaio agli aghi di pino secchi col rumore di chi mangia patatine.

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Ridono nel buio, solo il bianco dei denti e degli occhi, con l’ultimo sobbalzo la due cavalli si ferma e affonda appena nella sabbia. Il tetto della pineta è finito, la striscia di sabbia, il mare aperto e tutto il resto è color luna. Scendono, si tolgono le scarpe, la sabbia è accogliente e piedi affondano. Cominciano a inseguirsi sulla spiaggia. Lo fanno anche di giorno quando c’è gente e sono bravissimi, riescono a correre come pazzi senza toccare niente e nessuno, le ali ai piedi, elastici nei muscoli, i riflessi di giovani gatti. Sfiorano tutto e si sfiorano veloci e mai si acchiappano, i sorrisi stampati. Ora si spogliano continuando ad inseguirsi., poi la pipa fa sentire il suo effetto, si buttano sulla sabbia nudi ansimanti ridenti e sudati, a pancia in giù, uno di fronte all’altra sulla sabbia ancora tiepida del sole di oggi. Uno sguardo e sono già in acqua. Si agganciano, Orio è di pietra e Aria dolce lo avvolge con le cento ventose di un polipo che abbraccia il suo scoglio a risucchiarlo dentro se. Ora urlano e piangono insieme, dopo ridono ripensando ai vagiti strazianti che qualcosa di indomabile dentro gli ha fatto emettere e perché si sentono un po’ come un granchio solo, Orio danza sulle punte dei piedi, Aria attaccata su di lui che non smette di mordergli una spalla. Si abbattono sulla riva, le piccole onde sciabordanti i corpi rigogliosi, tutto è color luna.